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Separatismo educativo, provocazione o necessità?

In occasione della Giornata mondiale contro la Violenza sulle Donne, vi sottopongo alcune riflessioni “controcorrente”.

Anni addietro alcuni pedagogisti inglesi, dopo un approfondito lavoro di ricerca, decretarono il fallimento della scuola mista. Maschi e femmine – questa la sorprendente conclusione – apprendono in modo diverso: devono quindi ricevere un’educazione distinta.

Il pubblico più maturo reagì con diffidenza a questa proposta. Non erano poi lontanissimi i tempi dell’infanzia rigidamente divisa in fiocchi rosa e azzurri, dove le scuole “serie” erano, naturalmente, solo quelle maschili. Gli istituti femminili inculcavano alle bambine il dovere del servizio, dell’abnegazione, del sacrificio, corroborato da robuste dosi di economia domestica infarcite da qualche nozione di cultura generale (in fondo, il loro futuro di spose e madri richiedeva pur sempre un minimo di raziocinio). I ricercatori anglosassoni, con la loro profferta, volevano dunque tornare al passato?

In realtà, essi muovevano da un presupposto diverso. Si erano accorti che, a parità di anni e condizioni, le ragazze si dimostravano più attente, mature, responsabili, interessate dei loro compagni maschi. Di qui il fervido consiglio: scuole separate.

Si tratta di razzismo al contrario, tuonarono molti, fra cui la sottoscritta, convinta soprattutto della validità della relazione tra i sessi nella fase infantile e adolescenziale. L’esperienza maturata in seguito mi ha spinta, però, a rivedere le mie posizioni. Se l’ipotetica separazione lasciasse intatta la struttura educativa, sarebbe inutile, anzi dannosa. La scuola non può trasformarsi in un’azienda che premia chi è più efficiente lasciando indietro gli altri. Ma se rappresentasse l’unica maniera per permettere alla ragazza di crescere seguendo i propri ritmi d’apprendimento e per favorirne l’autentica maturazione personale… potrei essere d’accordo.

Pur se educata nella famiglia più liberale del mondo, infatti, la bambina apprende ben presto che il mondo non contempla la sua esistenza se non in subordine a quella maschile. La pubblicità, il cinema, la televisione, la società tutta le inviano messaggi in cui questa subalternità è costantemente ribadita; e attraverso la TV, soprattutto commerciale, la piccola scopre che in molte parti del mondo, senza che nessuno si scandalizzi, essa è costretta a velarsi, a vergognarsi di sé, a rinunciare agli studi per badare a un marito spesso imposto e non di rado molto più anziano di lei. Impara, dal linguaggio degli amichetti, che una femmina non vale nulla, perché considerata debole, fragile, irresoluta.

Con questo bagaglio psicologico-culturale giunge a scuola. E la scuola è l’istituzione che per eccellenza riflette, con la cupa fissità d’uno specchio antico, la svalutazione sociale della donna. Lì il sessismo del linguaggio diventa norma; e la norma è il maschio. Nelle antologie ricorrono pochi nomi femminili (in alcune, anche recentissime, non se ne trova neppure uno); dalla storia addirittura scompaiono. All’unica rivoluzione riuscita, quella delle donne appunto, non si dedica che in sparuti casi qualche pagina distratta, da spiegare, semmai, a discrezione dell’insegnante. In compenso è obbligatorio conoscere a memoria le campagne di Napoleone e le guerre (dichiarate e combattute da maschi) vengono presentate come momenti fondamentali di progresso e di civiltà: “la sola igiene del mondo”. La filosofia poi, madre di tutte le materie, è paradossalmente il regno assoluto degli uomini. E i pregiudizi misogini di Platone e Aristotele diventano paradigmi del sapere universale.

Le scuole elementari e medie pullulano di insegnanti donne: professioniste mal pagate che spesso, a costo di enormi sacrifici, cercano di rimediare allo sfascio definitivo del sistema scolastico. Tuttavia quest’impegno non è riconosciuto da nessuno: non dall’istituzione, all’interno della quale “non si fa carriera” (questo il vero motivo della scarsità di personale docente maschile, che però, guarda il caso, ricompare in modo massiccio all’Università, dove riceve gratificazione e rispetto, oltre a un lauto stipendio); non dalla società; dagli studenti men che meno.

Da questa scuola che non le contempla, ma che le sfrutta, io non avrei problemi a togliere le donne, siano esse scolare, professoresse o presidi. Per quanto tempo? Basterebbero le elementari, forse le medie; di sicuro il momento in cui la personalità si sviluppa in modo completo. Immagino una sorta di college dove non contino competitività e carriera, in cui s’insegnino i valori più originali dell’esperienza femminile, il rispetto della diversità, la religiosità non patriarcale. Hegel? La ragazza potrà relativizzarlo (e quindi capirlo meglio, compatendo il suo elogio della famiglia patriarcale) dopo aver imparato, magari attraverso Edith Stein e Carla Lonzi, ad amarsi di più.

So che questa mia idea incontrerà fortissime resistenze. Qualcuno obietterà pure che, in ogni caso, la società ha le sue regole e rinchiudersi in un gineceo non serve a nulla. Il fatto è che nell’era della comunicazione globale un’auto-reclusione sarebbe pressoché impossibile. Inoltre, a differenza del passato, oggi non è certo la scuola l’unico luogo deputato alla conoscenza tra giovani uomini e giovani donne: occasioni di incontro sono sempre possibili. E, una volta tornata alla scuola mista, la ragazza avrà tutto il tempo di dialogare coi maschi, ma su un piano di effettiva parità, maggiormente consapevole delle proprie capacità e del proprio valore.

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