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La forma per l’impugnazione delle delibere condominiali

La forma per l’impugnazione delle delibere condominiali: l’atto di citazione è l’unica strada percorribile? La sanatoria degli atti e i primi orientamenti dopo la riforma del Condominio

Avv. Paolo Accoti scrive…

In linea generale, l’art. 121 c.p.c. stabilisce come: “Gli atti del processo, per i quali la legge non richiede forme determinate, possono essere compiuti nella forma più idonea al raggiungimento del loro scopo”, norma che si coordina con quelle di cui al capo III, intitolato “Della nullità degli atti” e, in particolare, con l’art. 156 c.p.c. per il quale: “Non può essere pronunciata la nullità per inosservanza di forme di alcun atto del processo, se la nullità non è comminata dalla legge.

Può tuttavia essere pronunciata quando l’atto manca dei requisiti formali indispensabili per il raggiungimento dello scopo. La nullità non può mai essere pronunciata, se l’atto ha raggiunto lo scopo a cui è destinato”.

Ciò posto, l’ordinamento vigente appresta una generale forma di sanatoria dell’atto viziato, ferme restando due condizioni: la mancanza di specifica normativa (“legge”) che ne imponga la nullità; la presenza dei requisiti minimi (“formali”) necessari al raggiungimento dello scopo cui l’atto è preposto.

Le Sezioni Unite, con la sentenza n. 2907, del 10.02.2014, ribadiscono come la giurisprudenza della Corte sia consolidata nel ritenere che, dovendosi nel rito ordinario proporre l’appello con citazione, nel caso in cui il gravame sia stato erroneamente introdotto con ricorso, la sanatoria risulta senz’altro ammissibile, ma a condizione che l’atto di appello sia stato non solo depositato nella cancelleria del giudice competente, ma anche notificato alla controparte nel termine perentorio di cui all’art. 325 ovvero 327 c.p.c. (In tal senso da ultimo: Cass. civ., S.U., 23.09.2013, n. 21675; Cass. civ. S.U., 8.10.2013, n. 22848. In precedenza: Cass. civ. n. 3058 del 2012; Cass. civ. n. 2430 del 2012; Cass. civ. n. 12290 del 2011; Cass. civ. n. 6412 del 2011; Cass. civ. n. 5826 del 2011; Cass. civ. n. 4498 del 2009; Cass. civ. n. 23412 del 2008; Cass. civ. n. 11657 del 1998).

Allo stesso modo, il principio trova applicazione quando l’appello concerne una questione che avrebbe dovuto essere trattata in primo grado con il rito del lavoro e che, invece, sia stata assoggettata al rito ordinario; tant’è vero che l’appello proposto mediante ricorso intanto è ritenuto ammissibile in quanto tale atto sia stato non solo depositato in cancelleria, ma tempestivamente notificato alla controparte a norma degli artt. 325 e 327 c.p.c. (Cass. civ., n. 7672 del 2000; Cass. civ., n. 7173 del 1997; Cass. civ., n. 2518 del 1991; Cass. civ., n. 2543 del 1990).

Ciò posto, quando l’impugnativa in appello deve essere proposta con ricorso, si ritiene costantemente ammissibile la sanatoria dell’impugnazione introdotta mediante citazione purché la stessa risulti non solo notificata, ma anche depositata in cancelleria nel termine perentorio di legge (Cass. civ., n. 21161 del 2011; Cass. civ., n. 9530 del 2010; Cass. civ., n. 17645 del 2007; Cass. civ., n. 8947 del 2006; Cass. civ., n. 13660 del 2004; Cass. civ., n. 13422 del 2004; Cass. civ., n. 5150 del 2004; Cass. civ., n. 1396 del 2001; Cass. civ., n. 14100 del 2000; Cass. civ., n. 10251 del 1994; Cass., S.U., n. 4876 del 1991).

L’ importante principio, ribadito da ultimo dalla richiamata sentenza delle Sezioni Unite si applica tendenzialmente a tutte le materie.

La sentenza n. 2907/2014, richiamando due precedenti delle medesime Sezioni Unite, quello del 23.09.2013, n. 21675 e dell’8.10.2013, n. 22848, tiene conto anche di una diversa soluzione, applicabile tuttavia solo all’impugnativa delle delibere condominiali.
In siffatta materia le Sezioni Unite, confortate dai propri precedenti, individuano un’eccezione a quella che sarebbe da considerare la regola “generale”, di talché precisato che l’impugnazione delle delibere condominiali deve proporsi con atto di citazione, e non con ricorso (Cass. civ., S.U., 14.04.2011, n. 8491) – contrariamente a quanto ritenuto dalla precedente giurisprudenza -qualora la suddetta impugnativa venga spiegata erroneamente con ricorso, questa può essere considerata tempestiva già con il solo deposito in cancelleria nel termine previsto dall’art. 1137 co. II c.c. (30 gg.), restando assolutamente irrilevante il “tempo” della notificazione dell’atto, quand’anche avvenuta decorso il suddetto termine.

La differenza di trattamento di fattispecie sostanzialmente identiche viene giustificata dalla “specificità morfologica e funzionale dell’atto impugnato (delibera di assemblea condominiale) e, conseguentemente, della relativa opposizione; e ciò anche perché la imposizione del termine di cui all’art. 1137 c.c., comma 3, risponde esclusivamente ad esigenze di certezza facenti capo al condominio ed attinenti a materia non sottratta alla disponibilità delle parti, tanto che (diversamente da quanto avviene in caso di inosservanza dei termini per la proposizione dell’appello o di altri mezzi di impugnazione di pronunzie giudiziali, che rispondono ad interessi di carattere pubblicistici) l’inosservanza del termine decadenziale in questione non è rilevabile d’ufficio dal giudice, ma può essere eccepita, appunto, solo (e tempestivamente) dal condominio convenuto”.

Viene altresì specificato come la suddetta eccezione al principio generale non possa trovare alcuna applicazione al di fuori dell’ambito dell’impugnativa delle delibere condominiali che, allo stato, salvo renvirement della stessa Suprema Corte, appare l’unica materia che deroga all’anzidetto principio.

Fermo restando quanto affermato, rimane pur sempre da verificare se la forma erroneamente utilizzata sia idonea al raggiungimento dello scopo cui l’atto è preposto, vale a dire se l’atto contenga gli elementi essenziali a tal fine.

A tal proposito si registrano i primi orientamenti della giurisprudenza di merito, con specifico riferimento alla nuova formulazione dell’art. 1137 c.c. (per come novellato dalla L. 220/2012), che sembrerebbero di fatto non allinearsi completamente al predetto principio.
In particolare, il Tribunale di Milano prima, con provvedimento del 21.10.2013 e quello di Cremona poi, con sentenza 23.01.2014 n. 37, pur consapevoli del principio espresso da Cass. 8941/2011 – relativo alla sanatoria del giudizio di impugnazione erroneamente introdotto con ricorso tempestivamente depositato in cancelleria – hanno ritenuto, tuttavia, inammissibile l’impugnazione proposta con detta forma, difettando i requisiti essenziali.

A parere di chi scrive quanto asserito costituisce una “forzatura” dei principi espressi – anche successivamente – dalla Corte di Cassazione (Da ultimo: Sent. 3907/2014).

Si tenga presente, infatti, che le ultime tre sentenze della Suprema Corte sopra citate, peraltro in parte pubblicate posteriormente al deposito delle sentenze di Milano e Cremona, sembrerebbero orientarsi in maniera differente, né vale a sostenere il contrario la modifica dell’art. 1137 c.c., per come pure paventato dalla richiamata giurisprudenza di merito.

Entrambi i giudici di primo grado ritengono che il ricorso, nella sua formulazione classica, manchi completamente dei requisiti previsti a pena di nullità, del numero 7) dell’art. 163 c.p.c., ed in particolar modo della data dell’udienza di prima comparizione e degli avvertimenti ivi elencati, destinati al corretto instaurarsi del contraddittorio processuale con il convenuto (c.d. vocatio in ius);

Peraltro, continuano i giudici di Milano e Padova, in questi casi non potrebbe nemmeno operare il principio di conservazione degli atti processuali (poiché l’atto non può, comunque, raggiungere lo scopo cui è destinato, ex art. 156 ultimo comma, c.p.c., pena la completa abdicazione dal generalissimo principio di congruità delle forme allo scopo o della strumentalità delle forme che costituisce la stessa ratio della disciplina che il codice di rito dedica – per usare le stesse parole usate dal legislatore nell’intitolare il Capo I del Titolo dedicato agli atti processuali – alle “forme degli atti e dei provvedimenti”), né potrebbe operare il meccanismo sanante di cui all’art. 164, comma 2, c.p.c. (poiché esso è regolato espressamente nei soli casi di introduzione del giudizio con citazione e poiché manca totalmente l’indicazione di una udienza di comparizione, e non solo “l’avvertimento previsto dal n. 7) dell’art. 163” di cui al primo comma dell’articolo in questione).

Detto ragionamento, tuttavia, ingenera qualche perplessità.

In primo luogo perché il richiamo al “nuovo” art. 1137 c.c., operato con le anzidette decisioni, non sposta affatto i termini della questione.
Infatti, appare sicuramente vero che la modifica della materia condominiale apportata con la L. 220/2012 (in vigore dal 18.06.2013) ha profondamente modificato la disciplina, tuttavia, con specifico riferimento all’art. 1137 c.c., la riforma non sembra aver prodotto sostanziali modifiche, se non l’eliminazione della parola “ricorso”.

Nel testo previgente, l’art. 1137 c.c. risultava così formulato: “Le deliberazioni prese dall’assemblea a norma degli articoli precedenti sono obbligatorie per tutti i condomini. Contro le deliberazioni contrarie alla legge o al regolamento di condominio, ogni condomino dissenziente può fare ricorso all’autorità giudiziaria, ma il ricorso non sospende l’esecuzione del provvedimento, salvo che la sospensione sia ordinata dall’autorità stessa. Il ricorso deve essere proposto, sotto pena di decadenza, entro trenta giorni, che decorrono dalla data della deliberazione per i dissenzienti e dalla data di comunicazione per gli assenti".

Nella nuova formulazione l’art. 1137 c.c. così dispone: “Le deliberazioni prese dall’assemblea a norma degli articoli precedenti sono obbligatorie per tutti i condomini. Contro le deliberazioni contrarie alla legge o al regolamento di condominio ogni condomino assente, dissenziente o astenuto può adire l’autorità giudiziaria chiedendone l’annullamento nel termine perentorio di trenta giorni, che decorre dalla data della deliberazione per i dissenzienti o astenuti e dalla data di comunicazione della deliberazione per gli assenti. L’azione di annullamento non sospende l’esecuzione della deliberazione, salvo che la sospensione sia ordinata dall’autorità giudiziaria”.

Come accennavamo, nell’attuale formulazione, di fatto, è stata solo eliminata la parola “ricorso” senza aggiungere altro, né in merito alla forma dell’atto, ma neppure alla procedura da seguire, di talché la necessità dell’impiego dell’atto di citazione per impugnare la delibera condominiale rimane pur sempre di stretta interpretazione giurisprudenziale, risultando sostanzialmente invariato lo specifico quadro normativo.

Ed invero, costituisce ius receptum, quanto meno dalla sentenza della Cassazione n. 8941/2011, che l’impugnativa a delibera condominiale deve essere proposta con atto di citazione e che l’utilizzo del termine “ricorso” (nella precedente formulazione dell’art. 1137 c.c.) era da intendersi in senso a-tecnico, essendo utilizzato genericamente nel senso di istanza giudiziale.

Peraltro, non si può neppure fare utile riferimento al “legittimo affidamento circa l’acquisita esecutività della delibera impugnata” (magari perché la notifica del ricorso può avvenire decorsi diversi mesi dall’adozione della delibera), proprio perché, ora come allora, la delibera condominiale risulta a tutti gli effetti esecutiva sin dalla sua adozione, salvo sospensione da parte dell’autorità giudiziaria, di talché, pur in pendenza di giudizio la stessa risulta pienamente operativa.

Anche la prospettata inapplicabilità, da parte dei giudici di merito, del principio di conservazione degli atti processuali (“poiché l’atto non può, comunque, raggiungere lo scopo cui è destinato, ex art. 156 ultimo comma, c.p.c., pena la completa abdicazione dal generalissimo principio di congruità delle forme allo scopo”), al pari della dedotta inoperosità del meccanismo sanante di cui all’art. 164, comma 2, c.p.c. (“poiché esso è regolato espressamente nei soli casi di introduzione del giudizio con citazione e poiché manca totalmente l’indicazione di una udienza di comparizione, e non solo “l’avvertimento previsto dal n. 7) dell’art. 163” di cui al primo comma dell’articolo in questione”, non appaiono del tutto convincenti.

La generica affermazione in merito alla congruità delle forme appare asserzione di meri principi che inevitabilmente si scontra con il dettato dell’art. 156 c.p.c., il quale riferisce come la nullità possa essere pronunciata solo quando l’atto manca dei requisiti formali indispensabili per il raggiungimento dello scopo e, comunque, non può mai essere pronunciata, quando l’atto ha raggiunto lo scopo a cui è destinato.

La formulazione risulta assolutamente chiara e non lascia spazio ad alcuna interpretazione di sorta, come chiaramente evincibile anche dalle sentenze delle Sezioni Unite sopra richiamate.

La nullità, peraltro, può essere pronunziata solo quando l’atto manchi “totalmente” dei requisiti formali indispensabili al raggiungimento del suo scopo. Il principio è stato espresso nelle più svariate materie: in quella di espropriazione forzata presso terzi (Cass. civ., 7612/2004); in materia di separazione (Cass. Civ., n. 13660/04; App. Catania, 15.10.2007); anche in sede di appello (App. Napoli Sent., 08.10.2008); in materia di opposizione agli atti esecutivi erroneamente introdotta con comparsa di risposta (Cass. civ., 9.04.2015, n. 7117).

Inoltre nella suddetta motivazione non si terrebbe conto del “meccanismo sanante” disposto dagli artt. 427 e 429 c.p.c., laddove viene stabilito come le cause erroneamente introdotte con il rito del lavoro debbano essere trattate con quello ordinario, a tal fine il giudice le rimette con ordinanza al giudice competente, fissando un termine non superiore a trenta giorni per la riassunzione con il rito ordinario, evenienza verificabile anche in appello, ex art. 439 c.p.c.

Meccanismo confermato, più in generale, anche dal D.Lgs. 150/2011 (art. 4), in tema di semplificazione dei riti.
Allo stesso modo non condivisibile si appalesa l’assunto, pure rinvenibile nelle sentenze del Tribunale di Milano e Padova, per cui nel ricorso (erroneamente utilizzato per impugnare la delibera condominiale) mancherebbe totalmente l’indicazione di un’udienza di comparizione, e non solo “dell’avvertimento previsto dal n. 7) dell’art. 163”.

Detta affermazione sembrerebbe non tenere in alcun conto l’evidente convertibilità delle due forme dell’atto introduttivo del giudizio e, pertanto, della loro materiale commutabilità, per come oramai comunemente ritenuto in dottrina e giurisprudenza.

Ed invero, proposto il ricorso, quand’anche erroneamente, il giudice fissa con decreto l’udienza di comparizione delle parti nonché il termine entro cui provvedere alla notifica dello stesso, quindi indica al convenuto il termine entro cui costituirsi in giudizio (generalmente) ammonendolo sulle possibili conseguenze processuali della tardiva o omessa costituzione.

L’atto così come formatosi (ricorso e pedissequo provvedimento giudiziale), una volta notificato alla controparte risulta completo in ogni sua parte nonché perfettamente idoneo al raggiungimento dello scopo cui è destinato, contenendo – come visto – sia la data di udienza che tutti gli “avvertimenti” del caso (editio actionis e vocatio in ius)

A tal proposito non si può fare a meno di segnalare la recentissima sentenza della Corte di Cassazione del 9.04.2015n. 7171, la quale ha ritenuto (addirittura) l’equipollenza della comparsa di risposta all’atto di citazione in materia di opposizione agli atti esecutivi e, pertanto, la validità dell’atto.
Il giudice di legittimità – confermando la sentenza del giudice di merito – ha respinto la prospettata violazione degli artt. 163, 164 e 618 co. II c.p.c., sollevata dal ricorrente, sulla scorta della circostanza per la quale l’opposizione agli atti esecutivi sarebbe stata avanzata con una copia conforme della comparsa di costituzione e risposta, pertanto, senza l’indicazione del giorno dell’udienza e con un atto non qualificabile citazione ma neppure ricorso e, aggiungeremmo noi, stante la forma tipica della comparsa di costituzione, sicuramente senza “l’avvertimento previsto dal n. 7) dell’art. 163”, richiesto dai Tribunali di Milano e Padova.

La Cassazione, al contrario, ha reputato che sebbene l’art. 618 co. II c.p.c. preveda che l’introduzione del giudizio di merito debba avvenire “con la forma dell’atto introduttivo richiesta nel rito con cui l’opposizione deve essere trattata – e pertanto – se la causa è soggetta al rito ordinario il giudizio di merito va introdotto con citazione da notificare alla controparte entro il termine perentorio fissato dal giudice”, precisa che, non di meno, “nel caso di giudizio da introdursi con citazione, l’esigenza di dare inizio al processo di merito è ugualmente soddisfatta dalla notificazione di un atto diverso nella forma, purché contenente tutti gli elementi previsti dall’art. 163, comma terzo, c.p.c.”.

La Corte, quindi, ha ritenuto che la comparsa di risposta è da ritenersi idonea e bastevole all’introduzione del giudizio di merito siccome atto equipollente alla citazione, considerato che, nel caso specifico, la stessa conteneva sia l’editio actionis che la vocatio in ius, siccome notificata unitamente al provvedimento del giudice dell’esecuzione che fissava sia il termine per la notificazione che la data della prima udienza.

Ciò posto, anche in virtù di tutti i precedenti della Suprema Corte sopra richiamati, non vi è chi non veda la perfetta applicabilità dell’anzidetto assioma anche alla materia condominiale e, in particolare, all’impugnativa di delibera erroneamente introdotta con ricorso.

Contrariamente a quanto sostenuto dai Tribunali di Milano e Padova, se è vero come è vero che anche una mera comparsa di costituzione e risposta possa essere considerata equipollente all’atto di citazione, a maggior ragione lo dovrebbe essere il ricorso munito del provvedimento giudiziale sopra visto.

Infatti il ricorso contiene (ex art. 125 c.p.c.) pur sempre i medesimi elementi dell’atto di citazione, l’indicazione dell’organo giudiziario, le generalità delle parti, l’oggetto della domanda, l’esposizione dei fatti ed i mezzi di prova di cui ci si intende avvalere; mancherebbe (solo apparentemente)

l’ indicazione del giorno d’udienza e l’invito al convenuto a costituirsi in un dato termine, evenienze tuttavia ampiamente soddisfatte dalla richiesta di fissazione dell’udienza e termine per la notifica comunemente contenute nel ricorso e indicate dal Tribunale nel proprio decreto.

L’ atto così “assemblato” (ricorso e decreto giudiziale) conterrebbe quindi tutti i requisiti indicati dall’art. 163 c.p.c.

Sarebbe preferibile, pertanto, che la giurisprudenza di merito assumesse una posizione meno rigorosa e più in linea con i principi di diritto sopra esposti, anche in considerazione del fatto che l’affrettata declaratoria d’inammissibilità di una siffatta – sia pure erronea – forma giudiziale comporterebbe delle conseguenze irreversibili, atteso che la delibera in contestazione non risulterebbe più impugnabile stante l’inevitabile spirare del termine decadenziale di trenta giorni.

Ritornando al contenuto del novellato art. 1137 c.p.c., come accennato, il legislatore si è limitato ad eliminare il termine “ricorso”, lasciando sostanzialmente invariato il resto della norma.

Pertanto, la necessità di introdurre l’impugnativa della delibera condominiale con atto di citazione discenderebbe, in ogni caso, dall’applicazione degli oramai costanti principi giurisprudenziali (Sent. n. 8941/2011), considerato che l’art. 1137 c.c., pur nella nuova formulazione e nella vigenza del predetto principio di diritto, continua a non indicare la forma da utilizzare per impugnare la delibera, né la procedura da seguire.

Ci piacerebbe pensare che l’omissione non sia dovuta a una banale svista, bensì a una ponderata valutazione dell’attuale quadro normativo.

Ed invero, all’atto della formulazione del nuovo art. 1137 c.c. risultava già vigente sia il procedimento sommario di cognizione di cui all’art. 702 bis c.p.c., sia il D.Lgs. 150/2011 di semplificazione dei riti.

L’anzidetto art. 702 bis c.p.c. prevede che la domanda può essere proposta con “ricorso” al Tribunale competente, il quale deve contenere le indicazioni di cui ai numeri 1), 2), 3), 4), 5) e 6) e l’avvertimento di cui al numero 7) del terzo comma dell’articolo 163.

Le materie in cui è possibile esperire siffatto procedimento risultano quelle in cui il Tribunale giudica in composizione monocratica, rimangono escluse pertanto solo quelle di cui all’art. 50 bis c.p.c., nelle quali il Tribunale giudica in composizione collegiale, fatte salve le eccezioni di cui al capo III del D.Lgs. 150/2011, che indica una serie di procedimenti di competenza del collegio ai quali risulta espressamente applicabile il procedimento di sommaria cognizione di cui all’art. 702 bis c.p.c.

Pertanto nulla osta a che lo speciale procedimento in parola possa ritenersi utilmente esperibile in caso di impugnativa a delibera condominiale, la quale, conseguentemente, potrebbe essere correttamente introdotta anche con il ricorso di cui all’art. 702 bis c.p.c.

Ed invero, salvo rarissimi casi, l’impugnativa della delibera non abbisogna di particolare istruttoria (testimoni, CTU, ecc.), risultando sufficiente una istruzione sommaria, atteso che la prova dei fatti posti a fondamento della domanda quasi sempre è rinvenibile per tabulas, in virtù della documentazione prodotta agli atti.

Si pensi alla delibera adottata con palese violazione delle maggioranze assembleari dettate dal codice civile ovvero il caso di nomina di amministratore non in possesso dei requisiti di legge, o ancora la delibera che modifica il criterio legale di ripartizione delle spese senza l’unanimità dei partecipanti al condominio (nel qual caso la prova verrebbe fornita dal verbale assembleare). (Impugnazione delibere nel mese di agosto, possibile?)

In questi casi, per come esplicitamente previsto dall’art. 702 bis c.p.c., il giudizio si potrebbe introdurre con ricorso che, pertanto, andrebbe dapprima depositato e, quindi, successivamente notificato unitamente al provvedimento del giudice di fissazione dell’udienza, nel termine dallo stesso indicato.

Va da sé che, in ossequio ai costanti principi giurisprudenziali, la domanda s’intenderebbe tempestivamente proposta già con il deposito dell’atto in cancelleria, nei trenta giorni decorrenti dalla data della deliberazione per i dissenzienti o astenuti e dalla data di comunicazione della deliberazione per gli assenti, e non certo nel momento della notificazione, per la quale potrebbero passare diversi mesi.

Ed ecco che allora ancor più dubbio appare l’orientamento del Tribunale di Milano e Padova, atteso che anche nel ricorso ex art. 702 bis c.p.c. manca l’ indicazione dell’udienza di comparizione (indicata solo successivamente dal giudice); né potrebbe ostare il legittimo affidamento circa l’acquisita esecutività della delibera impugnata pure paventato dai suddetti Tribunali, vuoi perché, come sopra ricordato, le delibere sono comunque esecutive salva sospensiva da parte del giudice, vuoi perché per il ricorso ex art. 702 bis c.p.c., sia pure tempestivamente depositato, il Tribunale adito potrebbe indicare un’udienza di comparizione delle parti anche molto distante nel tempo (non indicando la norma un termine entro il quale il giudice deve fissare l’udienza) ed un termine per la notifica altrettanto remoto, evenienza non imputabile al ricorrente che ha pur sempre depositato il ricorso tempestivamente, nel termine decadenziale di cui all’art. 1137 c.c. (30 gg.).

Fermo restando che se il giudice ritiene che le difese svolte dalle parti richiedono un’istruzione non sommaria, con ordinanza non impugnabile, fissa l’udienza di cui all’articolo 183c.p.c. e, in tal caso, si applicano le disposizioni del libro II (art. 702 ter co. II c.p.c.).

Pertanto, in tema di impugnazione di delibera condominiale, assolutamente non scontata apparirebbe l’esclusiva utilizzabilità della forma dell’atto di citazione, risultando obiettivamente applicabile anche la forma del “ricorso” ex art. 702 bis c.p.c., come altrettanto dubbia risulterebbe

l’ inammissibilità della domanda erroneamente introdotta con ricorso ordinario, contenente i requisiti minimi di cui all’art. 125 c.p.c.
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