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Inerzia dell’ amministrazione nella riscossione delle spese

Inerzia dell’ amministratore nella riscossione delle spese

L’inerzia ultrasemestrale dell’amministratore nel riscuotere i contributi dovuti dai condomini è variamente considerata nella Riforma risultante dalle Modifiche alla disciplina del condominio negli edifici, nel testo definitivamente approvato dal Senato il 20 novembre 2012: essa costituisce presupposto indispensabile per l’esercizio dell’azione surrogatoria intentata dal terzo creditore nei confronti dei morosi, i cui dati l’amministratore deve comunicargli; rappresenta, poi, un’esemplificazione di grave irregolarità che legittima la revoca giudiziale dell’amministratore, ai sensi dell’art. 1129, comma 12, n. 6 c.c., ove lo steso abbia “omesso di curare diligentemente l’azione e la conseguente esecuzione coattiva”; può, infine, generare una responsabilità dell’amministratore nei confronti del medesimo terzo creditore.

Quest’ultimo passaggio si rivela assai significativo: l’amministratore, mandatario del condominio, diviene responsabile per la sua cattiva gestione nei confronti di un terzo, il quale è ovviamente estraneo al rapporto di mandato ed è piuttosto parte destinataria degli effetti degli atti giuridici posti in essere dall’amministratore.

È noto come la giurisprudenza sia solita ripetere che l’amministratore del condominio concreta un ufficio di diritto privato, orientato alla tutela degli interessi individuali e realizzante una cooperazione con i singoli condomini, assimilabile, come tale, al mandato con rappresentanza. Così delineata la relazione tra amministratore, condominio e condomini, scemava nel quadro originario del codice civile il nodo della responsabilità del primo. L’amministratore sembrava responsabile nei confronti dei condomini per i danni cagionati dalla sua negligenza, dal cattivo uso dei poteri e, in genere, da qualsiasi inadempimento degli obblighi legali o regolamentari. Tuttavia, la rilevanza delle violazioni dell’amministratore rispetto alla cura degli interessi del gruppo andava a esaurirsi nei rapporti interni con il condominio. Nell’espletamento delle attribuzioni di cui all’art. 1130 c.c., l’amministratore appariva come niente più che un rappresentante dei partecipanti al condominio, alla tutela dei cui interessi di gruppo doveva indirizzare la propria attività. Al di fuori della relazione tra amministratore e condomini, pertanto, i condomini stessi restavano gli esclusivi responsabili per il fatto dell’amministratore nei confronti dei terzi rimasti danneggiati, compreso, tra questi, il singolo partecipante distinto dal gruppo. Perché potesse prima della Riforma fondarsi una responsabilità civile dell’amministratore nei confronti dei terzi, doveva invocarsi il generale divieto di violazione del neminem laedere.

Con le modifiche apportate all’impianto codicistico, l’amministratore diviene, invece, ben altro che un mero rappresentante del condominio: esso si atteggia, piuttosto, innanzitutto quale responsabile per fatti ed atti imputabili all’insieme dei condomini. La prospettiva della centralità della responsabilità di gestione dell’amministratore e della non responsabilità dell’assemblea, caratteristica della disciplina delle società, ha dichiaratamente influenzato i riformatori del condominio.

Sembra evidente, allora, che, a fronte di un tale ampliamento dell’area di responsabilità dell’amministratore di condominio, inizi a rivelarsi inadeguata l’icona classica del “mandatario”, essendo netta l’eccedenza delle nuove attribuzioni rispetto a una mera esigenza di cooperazione esterna del condominio. Dall’antica funzione di rappresentanza si transita a individuare nell’amministratore il soggetto passivo di svariati rapporti di responsabilità, sovente scollegati pure da originari obblighi dei singoli condomini; vengono, cioè, delineate non vicende di accessione o successione dell’amministratore in rapporti di responsabilità preesistenti in capo ai proprietari delle varie unità immobiliari, ma autonomi doveri imputabili sin dall’origine all’amministratore. Scompare, così, pure la nota essenziale dell’alienità dell’affare, caratteristica dell’attività del mandatario con rappresentanza, e cioè la destinazione degli effetti dell’atto gestorio nella sfera giuridica del mandante. Questo processo avrebbe in coerenza dovuto concludersi con la definitiva soggettivizzazione dell’ente condominiale, ovvero con l’enucleazione del condominio quale centro autonomo di interessi e di rapporti.

Nel corso dell’iter parlamentare di approvazione della Riforma, si è poi fatto a meno del passaggio esplicito secondo cui “l’amministratore risponde dei danni a lui imputabili per il ritardo”. Avendo, tuttavia, l’amministratore la legittimazione e l’obbligo a esigere il credito verso i condomini (anche se non assume carattere trilaterale il rapporto relativo alla contribuzione alle spese, corrente tra condominio e singolo, per l’estraneità del terzo condomino al rapporto di mandato), ove l’amministratore mandatario non adempia diligentemente alla riscossione, la sua condotta rimane egualmente configurabile quale fonte di inadempimento; il che autorizzerà il condominio danneggiato non solo a richiedere l’esatto adempimento al condomino moroso ma, eventualmente, altresì il risarcimento del danno dall’amministratore. L’amministratore, in quanto mandatario, non risponde verso il condominio mandante dell’adempimento delle obbligazioni di contribuzione alle spese dei singoli condomini; non è sostenibile una corresponsabilità dell’amministratore, in quanto soltanto nel singolo condomino moroso può ravvisarsi il soggetto passivo dell’obbligazione insoddisfatta. È, però, inevitabile che l’amministratore mandatario debba fornire la prova di aver eseguito l’incarico conferitogli di riscossione dei crediti con la necessaria diligenza, dando conto del comportamento tenuto a fronte del ritardo nel pagamento delle bollette condominiali: l’esitazione dell’amministratore nell’attivazione delle procedure di riscossione del credito condominiale è potenzialmente idoneo a causare un danno al condominio, per via del rallentamento provocato alla realizzazione coattiva delle sue ragioni. Quando l’amministratore si sottragga al dovere di celere riscossione dei contributi, attraverso una condotta che allontani nel tempo la definizione del procedimento esecutivo, e quando questo ritardo sia (specie in tempi di accentuata svalutazione monetaria) direttamente foriero di un conseguenziale pregiudizio aggiuntivo per il condominio creditore, concorrono i presupposti in presenza dei quali sarà dato al giudice di applicare i principi sulla lesione del diritto di credito da parte del terzo.

Non è dato intuire perché l’art. 1129, comma 9 c.c. contempli un termine semestrale per la riscossione forzosa delle somme da parte dell’amministratore, essendo il riferimento al semestre più consono, invero, allo statuto delle società di capitali, laddove la gestione condominiale viene, piuttosto, tutta rapportata alla competenza annuale. È comunque da credere che il mancato rispetto del termine di sei mesi non faccia venir meno la legittimazione dell’amministratore ad agire, sia pure in ritardo, per la riscossione delle somme dovute dai condomini.

Lo stesso art. 1129, comma 9 c.c., aggiunge che l’amministratore può essere espressamente dispensato dall’assemblea dall’agire per la riscossione entro l’indicato termine. Ciò rimette all’assemblea una sostanziale possibilità di derogare a un’ipotesi tipizzata di revoca dell’amministratore e permette, altresì, al collegio dei condomini di ratificare il tardivo operato dell’amministratore, anche condividendo le ragioni che lo abbiano indotto a non agire tempestivamente per la condanna dei ritardatari. Così, peraltro, si ribadisce implicitamente pure come non rientri tra le attribuzioni dell’amministratore il potere di concedere dilazioni di pagamento ai singoli condomini, senza apposita autorizzazione dell’assemblea, avendo soltanto questa l’effettiva disponibilità delle vicende obbligatorie che si riflettono sulle sfere giuridico-patrimoniali individuali.
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