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700 miliardi di dollari, il mondo pagherà?

Wall Street in crisi spinge l’America in una nuova era
Riapertura dei mercati: Speriamo in bene!

Cari amici,

Ho trovato sulla WebPage del sole 24 ore di oggi un’ analisi di Alessandro Merli, a mio giudizio necessaria per dare dei riferimenti alla crisi finanziaria mondiale avvenuta negli ultimi giorni.

La decisione del governo USA di venerdì apre una nuova “era finanziaria” nel mondo.
La prima domanda che tutti si fanno è: Che faranno i mercati?

Ma il punto della questione è un altro, ed è molto più importante: Che faranno gli investitori esteri? Continueranno a finanziare il debito pubblico USA in silenzio e senza protestare così come hanno fatto finora?

Continueranno a pagare il petrolio in dollari USA, senza chiedersi quanto valga realmente il biglietto verde?

Dalla fine della seconda guerra mondiale in poi il dollaro USA è sempre stato una valuta indiscutibilmente dominante, che è stata considerata come moneta di riferimento.

Oggi non è più così!

Ma questo dato di fatto evidente nessuno ha il coraggio di dirlo con chiarezza, perchè non si sa bene cosa fare “dopo”!

D’ altra parte, non si può credere che le banche e gli stati mondiali resteranno disponibili a finanziare eternamente un debitore (Gli USA) che non ha mai avuto la reale volontà di rimborsare i suoi debiti, ed ora non ne ha più neanche la possibilità!

Io credo che qualcosa succederà.

A dimostrazione di questa convinzione, riporto un commento che ho scritto nel 2006 (2 anni fa), su un articolo del sole 24 ore di allora, che serve a far comprendere la fase nuova che stiamo vivendo da venerdì scorso:

Cari amici,
Sul sole 24 Ore di oggi mercoledì 19 luglio 2006, è pubblicato un articolo molto interessante a pagina 7.

Tutto il discorso che stiamo facendo, sparlando di economia, sta percorrendo il suo filo logico con moto costante, freddo e indifferente.

Vi consiglio di tornare indietro e rileggere i post scritti nei mesi scorsi, al fine di poter leggere questo post con piena consapevolezza.

Il titolo dell’ articolo lo copio pedissequamente:

LE BANCHE CENTRALI VENDONO TITOLI USA

Il giornalista inviato, Riccardo Sorrentino, per prima cosa si chiede:

Cosa accade ai grandi flussi di capitale nel mondo??

Accade ciò di cui abbiamo già scritto e spiegato circa due mesi fa:

Le banche centrali vendono titoli USA e riconvertono i valori in valute più sicure.

L’ articolista scrive che “solo il sostegno degli investitori privati impedisce per ora che gli Usa debbano affrontare una situazione preoccupante”

Quale situazione?? Qual’ è il problema??

L’ articolo non affronta nel merito la questione centrale. Per questo lo faccio io: Due mesi fa sono entrati negli Stati Uniti 69,6 miliardi di dollari.
Una misura nettamente superiore ai 60 miliardi di dollari previsti.

La vendita di titoli, naturalmente, genera liquidità. L’ abbondanza di liquidità abbassa il valore della valuta. Il minor valore della valuta provoca necessariamente un incremento degli interessi sul debito.

Questa è la situazione, aggravata dal fatto che progressivamente, le banche centrali non saranno più “compratori istituzionali” di debiti americani.

E se le banche centrali non acquisteranno più titoli di stato USA.
e se i privati (come prevedibile), prima o poi, seguiranno le banche centrali.

Quando questa situazione si verificherà, gli USA DOVE PRENDERANNO I CAPITALI CHE NECESSARIAMENTE DEVONO ACQUISIRE OGNI MESE PER MANTENERE IN EQUILIBRIO LA LORO ECONOMIA??

Il Sole 24 ore

Nei dieci giorni che hanno sconvolto Wall Street, cambiando irrimediabilmente il volto della finanza globale, una successione di notizie, una più clamorosa dell’altra, ha disorientato operatori e investitori e l’opinione pubblica mondiale, sempre più vicini a una crisi di panico: il salvataggio pubblico dei colossi del credito ipotecario Freddie Mac e Fannie Mae, il fallimento di Lehman, il matrimonio forzato di Merrill Lynch con Bank of America, la nazionalizzazione del gigante assciurativo Aig, il divieto delle vendite allo scoperto, il tentativo di sbloccare a colpi di liquidità il mercato monetario paralizzato.
Ma è stata probabilmente una piccola notizia, che rischiava di passare inosservata in mezzo alle convulsioni della grande finanza, a far scattare il campanello d’allarme a Washington e a provocare la decisione di passare, nelle parole del segretario al Tesoro Usa, Hank Paulson, «dalle soluzioni caso per caso a una soluzione complessiva». Non bastava più infilare le dita nei buchi che continuavano ad aprirsi nella diga, ma c’era bisogno di una massiccia protezione contro lo tsunami che stava montando e che stava per travolgere l’intero sistema finanziario.
La notizia apparentemente minore è uscita la sera di mercoledì scorso, quando la Reserve Management Corporation, società di fondi fra le più affidabili, ha rivelato che uno dei suoi fondi di mercato monetario, a causa del fallimento di Lehman aveva «rotto la parità con il dollaro», un limite considerato sacro e invalicabile per questo tipo di fondi comuni, da decenni considerati l’investimento più sicuro negli Stati Uniti. A differenza degli strumenti derivati complessi trattati a Wall Street, si tratta di prodotti finanziari che ogni americano conosce e quasi ogni famiglia americana possiede: hanno asset per oltre 3.500 miliardi di dollari. L’inizio di una fuga da questi fondi significava l’allargamento della crisi da Wall Street a Main Street. Dalla perdita dei bonus e dei posti di lavoro dei banchieri d’affari e dei trader – vista tutto sommato con distacco e persino con una certa schadenfreude dall’americano medio – alla distruzione dei risparmi delle famiglie.
Lasciare che il panico si diffondesse a questi strumenti voleva dire, allora sì, precipitare in una crisi come quella degli anni 30. Finora, grazie anche allo stimolo fiscale di Washington e al dollaro debole che ha sostenuto l’export, fattori peraltro temporanei, l’economia reale è riuscita a evitare di sprofondare in una recessione grave. Anche se la crescita sta scivolando in territorio negativo e potrebbe restarci per la prima parte del 2009, evitare un collasso finanziario è condizione indispensabile, anche se forse non sufficiente, per consenire che la frenata sia, se non breve, quanto meno non troppo brusca.
È stato così che, a sei settimane dalle elezioni presidenziali, un segretario al Tesoro che non è un politico, al servizio di un presidente, George W. Bush, che non è rieleggibile e che fino all’ultimo non ha mostrato alcun interesse alla crisi che andava ingrossandosi, ha annunciato, con una risposta pragmatica, forse obbligata, il più imponente piano di intervento pubblico nell’economia degli ultimi sessant’anni, un piano che, ha detto lo stesso Paulson, costerà un sacco di soldi ai contribuenti: 700 miliardi di dollari, secondo la richiesta avanzata ieri al Congresso, per rilevare le “scorie tossiche”, i cattivi titoli oggi nella pancia delle banche e delle altre istituzioni finanziarie, più i 50 miliardi per sostenere il mercato monetario, più il prestito da 85 miliardi all’Aig. Si arriva facilmente ad almeno mille miliardi di dollari. «Sembra una grossa cifra – dice Julian Callow, di Barclays Capital – ma è solo il 7% del prodotto interno lordo Usa».

L’epoca al tramonto
Il salvataggio delle «savings & loans» negli anni 80 attraverso la Resolution Trust Corporation, cui si ispira in parte il piano attuale, costò il 3,2% del pil. Quello delle banche svedesi nei primi anni 90, un’operazione ancora più audace, ricordata nei giorni scorsi dall’economista Paul Krugman, il 4 per cento. È chiaro tuttavia che la crisi di oggi è di ben altra portata.
Di fatto, l’annuncio di Paulson chiude il sipario su un’era durata una ventina d’anni, ma che ha avuto il suo fulgore, se così si può dire, negli ultimi dieci. Un’era dove il denaro gratis e l’innovazione finanziaria hanno contribuito a ridurre drasticamente la percezione del rischio. Dove la distrazione dei regolatori e l’ingordigia, a volte l’impreparazione, del top management ha consentito lo sviluppo di prodotti la cui “tossicità” non era veramente misurata da nessuno, se non sulla base di modelli rivelatisi poi fallaci. Dove l’offerta di finanza era eccessiva, e infatti, come primo effetto della crisi, si sta ora ridimensionando. E dove, infine, l’uso della leva finanziaria è andato fuori controllo. «Se hai una leva di 35 a 1 – diceva l’altra sera un vecchio trader di Wall Street – devi essere Superman per poterla tenere a bada».

Le tre (difficili) fasi verso una soluzione
Su tutto questo, l’intervento del Tesoro Usa e della Federal Reserve ha messo un punto, nella speranza di aver chiuso quella che Christian Broda (un economista di Chicago passato con scarso tempismo alla Lehman Brothers ai primi di settembre) ha definito la prima fase della soluzione della crisi, e cioè quella del contenimento.
La prossima è quella della ristrutturazione con l’intervento pubblico. Sulla quale l’incognita più grave può riguardare la volontà degli investitori internazionali, soprattutto le banche centrali asiatiche, che finora hanno finanziato in modo decisivo il deficit americano, di continuare a farlo, su dimensioni ancora maggiori.
La terza fase è quella della riforma della regolamentazione: un lavoro già avviato a livello internazionale dal Financial Stability Forum, presieduto dal governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, e che ora acquista ulteriore urgenza. Difficile pensare a un mondo post-crisi in cui prevalga una regolamentazione leggera e in cui, come ha scritto Martin Wolf sul “Financial Times”, le autorità partano del presupposto che i vigilati sappiano sempre quello che fanno.
L’imminenza delle elezioni americane ha aggiunto un’angolatura particolare alla crisi. È così che il repubblicano John McCain è stato il più critico del piano Paulson, dicendo che la Fed deve occuparsi della politica monetaria e non dei salvataggi delle banche, cercando forse, più che fare appello al primato del mercato, di cavalcare il risentimento anti-Wall Street. Il democratico Barack Obama dava, invece, il suo appoggio, fiancheggiato da una figura rassicurante, per i mercati e il pubblico, l’ex presidente della Fed, Paul Volcker, il primo a rilanciare l’idea della Resolution Trust.

Perché resta incertezza
I dieci giorni che sconvolsero Wall Street, deflagrazione finale di una crisi che dura da oltre un anno, si sono chiusi venerdì con l’annuncio del piano Paulson, che sanziona anche la fine di un’era per la finanza globale, e carica sul settore pubblico l’onere della soluzione. L’incertezza sul suo successo resta enorme: sulla volontà degli investitori stranieri di continuare ad acquistare debito Usa (che si gonfierà ancora, la difficoltà di valutare le scorie tossiche che le banche riverseranno sul bilancio federale, il ritorno alla normalità del mercato monetario, la capacità di stabilire regole per i mercati più efficaci di quelle attuali. Fino alla prossima crisi.

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