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Il declino del dollaro

Il declino del dollaro

Alla fine degli anni cinquanta gli Stati Uniti erano all’ apice del proprio potere; vantavano un avanzo corrente e il dollaro fungeva da valuta di riserva internazionale.

In base al famoso Accordo di Bretton Woods, firmato poco prima della fine della seconda guerra mondiale, altri paesi mantenevano un tasso di cambio fisso tra le proprie valute e il dollaro, e gli Stati Uniti si impegnavano a mantenere la convertibilità del dollaro in oro.

Molti economisti del tempo – in particolare quelli americani – erano favorevoli a questo accordo, ma Robert Triffin, un economista di origine belga, la pensava diversamente.

Nel 1960 si disse contrario all’ idea che una valuta nazionale fungesse anche da valuta di riserva internazionale; un sistema di questo tipo, a suo avviso, conteneva i germi della propria distruzione.

Triffin osservò che le nazioni che emettono valuta di riserva – la Gran Bretagna nel Diciannovesimo secolo, gli Stati Uniti nel ventesimo – generalmente presentano un surplus corrente; nel caso degli Stati Uniti, questo significava che l’ afflusso di dollari verso il paese era superiore al deflusso.

Fin quì tutto bene.

Ma Triffin evidenziò che gli altri paesi dovevano detenere la valuta di riserva; perciò la domanda di dollari avrebbe creato una forza di segno opposto, che avrebbe provocato un deflusso di dollari dagli Stati Uniti.

Secondo Triffin tali pressioni avrebbero presto o tardi generato un disavanzo corrente, che avrebbe finito per pregiudicare la posizione economica degli Stati Uniti e, di conseguenza, del dollaro.

Questo è precisamente ciò che accadde nel 1971, quando il presidente Nixon sospese la convertibilità in oro.

Il dilemma di Triffin è rilevante ancora oggi.

Il dollaro non è più convertibile in oro, ma rimane a tutti gli effetti la valuta di riserva internazionale, sebbene quella domanda contribuisca ad aggravare gli squilibri globali.

Alcuni economisti sostengono che questo accordo – il cosiddetto "Sistema di Bretton Woods II" – possa persistere ancora per qualche tempo, con i dollari che defluiscono dagli Stati Uniti e si accumulano nei caveau delle banche centrali dell’ Asia e del Medio Oriente.

In realtà, questo accordo precario mostra forti segnali di tensione.

Nel 2001 i dollari rappresentavano poco più del 70 per cento delle riserve detenute all’ estero; nel decennio successivo, in conseguenza dell’ aumento incontrollato del disavanzo di bilancio e del deficit corrente statunitensi, quella percentuale è diminuita, raggiungendo il 63 per cento nel 2008.

Nella seconda metà del 2009 le banche centrali straniere hanno mostrato un’ avversione ancora più pronunciata verso il dollaro e una spiccata preferenza per l’ euro e lo yen, al punto che nel terzo trimestre di quell’ anno soltanto il 37 per cento delle riserve di nuova acquisizione era denominato in dollari – un dato lontanissimo dalla media del 67 per cento registrata un decennio prima.

Una percentuale crescente di queste riserve è costituita invece da oro e persino da alcune valute di paesi emergenti.

La crescente propensione alla diversificazione e all’ abbandono del dollaro è particolarmente evidente nei fondi patrimoniali sovrani.

Questi fondi d’ investimento di proprietà statale – organizzazioni come China Investment Corporation – hanno cominciato a evitare i buoni del tesoro statunitensi che facevano la parte del leone nelle riserve delle banche centrali, concentrandosi invece su investimenti ad alto rendimento, dagli Hedge fund ai diritti minerari.

Questa tendenza probabilmente continuerà negli anni a venire.

Se siamo fortunati sarà un processo graduale, e non un crollo improvviso e tumultuoso.

In effetti è possibile che gli Stati Uniti seguano le orme della Gran Bretagna, che vide declinare il proprio potere (e la propria valuta) nell’ arco di molti decenni.

Infatti, malgrado gli Stati Uniti avessero superato la Gran Bretagna diventando la maggiore economia mondiale attorno al 1872, la sterlina britannica rimase la principale valuta mondiale per altre due generazioni.

Fu soltanto con la Prima guerra mondiale, quando la Gran Bretagna smise di essere un creditore netto e divenne un debitore netto, che la sterlina cominciò a perdere seriamente terreno e gli altri paesi presero a diversificare le proprie riserve valutarie, benchè nel 1928 il rapporto tra sterline e dollari nelle riserve mondiali fosse ancora di due a uno.

Il dollaro destituì la sterlina soltanto nel 1931, quando la Gran Bretagna abbandonò il sistema aureo.

Gli accordi di Bretton Woods contribuirono a cementare la supremazia del dollaro, anche se la valuta statunitense divenne la valuta di riserva mondiale per eccellenza soltanto dopo la Crisi di Suez del 1956, che determinò un ulteriore crollo della sterlina.

La decadenza della valuta britannica si è dipanata per tre quarti di secolo, e non è irragionevole sperare che anche il declino del dollaro proceda altrettanto lentamente.

Ma questa sorta di analogia storica non può essere presa troppo alla lettera.

La Cina, che occupa pressochè la stessa posizione in cui si trovavano gli Stati Uniti un secolo fa, sta ascendendo la scala economica mondiale molto più rapidamente di qualsiasi altra nazione nella storia; probabilmente supererà il Giappone diventando la seconda economia mondiale già nel 2010 o 2011, ed è possibile che scalzi gli Stati Uniti dal primo posto in tempi relativamente brevi.

Tutto questo accade a una velocità sbalorditiva.

A differenza degli Stati Uniti, la cui ascesa al potere ha richiesto un secolo, la Cina è riuscita a trasformarsi da paese di secondaria importanza a potenza globale in appena vent’ anni.

Si pone così l’ inquietante possibilità che la supremazia del dollaro abbia ormai gli anni – e non i decenni – contati.

E’ difficile immaginare come potrebbe svolgersi un declino così brusco e tumultuoso.

In passato le valute avevano qualcue relazione con l’ oro o l’ argento; questo legame è stato spezzato del tutto soltanto negli anni settanta.

Oggi il sistema monetario internazionale poggia su una valuta a corso forzoso: una valuta che non ha valore intrinseco e non è sostenuta da metalli preziosi, e il cui valore non è fissato in alcun modo.

In un certo senso il dollaro occupa attualmente il ruolo ricoperto a suo tempo dall’ oro; un suo crollo avrebbe oggi lo stesso effetto che si sarebbe prodotto se i reggenti e i banchieri dei secoli passati, nell’ aprire i forzieri, avessero scoperto che le loro preziose monete si erano trasformate in polvere.

Un tale scenario potrebbe un giorno realizzarsi se gli Stati Uniti continueranno a generare disavanzi esplosivi.

La Cina probabilmente continuerà ad acquistare debito Usa, ma altri paesi più piccoli potrebbero cominciare a muoversi lentamente verso l’ uscita.

Questo potrebbe provocare un fuggi fuggi generale al quale neppure la Cina potrebbe sottrarsi.

Quali che siano i vantaggi dell’ attuale sistema per quest’ ultima, a un certo punto i costi potrebbero superare i benefici.

Gli Stati Uniti si trovano a un bivio.

Se non rimettono ordine nei conti pubblici e non aumentano i risparmi privati, la probabilità di un evento sismico di questa portata non potrà che aumentare.

E’ fin troppo facile immaginare uno scenario in cui questo potrebbe verificarsi, particolarmente se nei prossimi anni si arrivasse ad una situazione di stallo politico.

I repubblicani metterebbero il veto a un aumento delle imposte, i democratici si opporrebbero ai tagli della spesa.

La monetizzazione del deficit, ottenuta stampando moneta, diventerebbe la via di minor resistenza.

L’ inflazione così generata avrebbe l’ effetto di erodere il valore del debito pubblico e privato detenuto nel mondo.

Gravati da questa "imposta da inflazione", gli investitori di tutto il mondo sarebbero portati a disfarsi dei dollari e ad acquistare la valuta di un paese con una migliore reputazione di responsabilità fiscale.

Se ciò accadesse, gli Stati Uniti ne pagherebbero le conseguenze.

Finora siamo riusciti ad emettere debito nella nostra valuta anzichè in quella di altri paesi, trasferendo sui nostri creditori il costo di una perdita di valore del dollaro.

Se altri paesi ci negassero improvvisamente questo "esorbitante privilegio", l’ onere ricadrebbe su di noi e i costi dell’ indebitamento aumenterebbero bruscamente, trascinando in basso il consumo, l’ investimento e, in ultima analisi, la crescita economica.

I prezzi di tutte le importazioni – dai giocattoli di plastica da due soldi provenienti dalla Cina ai barili di petrolio dell’ Arabia Saudita – aumenterebbero, pregiudicando uno stile di vita che gli americani considerano ormai un diritto di nascita.

In questo processo il dollaro diventerebbe soltanto un’ altra valuta tra tante.

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