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Il condominio è un sistema politico

Il condominio è un sistema politico

Cari amici,

Il condominio, così come il quartiere, il comune, o lo stato è un sistema politico; funziona per mezzo di regole sociali che sono fondate e costruite nel tempo.

Le regole sociali si fondano sulla cultura condivisa delle comunità residenziali; le regole sociali mutano con il tempo e possono migliorare, oppure possono peggiorare.

Quest’ anno, per la prima volta, ho avuto la soddisfazione di vedere che alcune mie idee si stanno realizzando sul territorio: Diversi consiglieri che rappresentano diverse comunità residenziali cittadine stanno iniziando a comunicare, a scambiarsi idee e formazione; a sentirsi parte di una società condivisa che ha interessi ed esigenze comuni.

Di seguito segnalo il link che porta al gruppo dei Consiglieri condominiali di Sesto San Giovanni.

Credo che questo sia il futuro possibile per costruire insieme dei modelli di gestione condominiale efficienti.

Ma questo schema è applicabile ad ogni tipologia di comunità residenziale, e si basa sui concetti di economia relazionale che da sempre cerco di condividere con tutti quelli che mi seguono nel progetto AziendaCondominio.

L’ economia relazionale si sta diffondendo sempre di più come alternativa  all’ economia di mercato.

Ad esempio vi lascio da leggere questo stupendo articolo che segue, pubblicato in data 27/12, ossia recentissimo, che ci fa sperare in un futuro migliore, specialmente oggi che ne abbiamo tanto bisogno.

Spero che molti si uniranno alla nostra Community, e realizzeranno le nostre idee in modo che diventino patrimonio comune e metodi di lavoro per tutti gli amministratori in Italia.

A tutti auguro un felice anno 2017.

 

ECONOMIA DI MERCATO ED ECONOMIA RELAZIONALE

Non vi è dubbio che l’affermarsi dell’economia di mercato, dell’individualismo basato sul contratto e sugli interessi reciproci piuttosto che sulla benevolenza; il superamento del mercantilismo; lo sviluppo delle produzioni specializzate e degli scambi nazionali e internazionali; lo smantellamento dei vincoli feudali e centralisti, e la conseguente liberazione di energie, ha dato uno straordinario contributo alla crescita economica nel mondo.

Ma, soprattutto negli ultimi 30 anni, il pendolo è andato troppo in alto da un lato solo e, essendo uscito dai binari, non riesce più a ritornare su una posizione equilibrata.

Il mercato ha rotto gli argini e ha invaso terre che non appartengono alla sua sfera, inondando interi villaggi.

L’individualismo è diventato insensibilità, furore ed egoismo totale.

I legami di solidarietà e di comunità sono stati, in grande misura, spezzati e spazzati via. In molti paesi le grandi città sono segmentate in quartieri separati, chiusi e protetti, le “gated community” (le comunità blindate), che evocano i castelli cittadini medioevali.

Nelle grandi città, affollate e rumorose, siamo preda della solitudine e i più deboli tra noi sono spacciati. Nonostante la retorica della globalizzazione, il protezionismo mercantile e valutario è in crescita, sicché l’Economist può dedicare una sua recente copertina al “gated world”.

Le concentrazioni di ricchezza e le differenze economiche aumentano enormemente, come aumenta ovunque, e soprattutto nella civile Europa, il razzismo. Il grande scrittore americano Tom Wolfe descrive una città così frammentata nel suo ultimo romanzo intitolato “Le Ragioni del Sangue” (Ed. Mondadori), ma il titolo originale è più forte: “Back to Blood”. Il romanzo è ambientato a Miami, città dove oltre la metà degli abitanti è di recente immigrazione e dove la minoranza di “anglos” bianchi (12%) vive da reclusa in “gated community” situate in quartieri esclusivi.

Il quadro della città è di una assoluta frammentazione: “Manca ogni ipotesi di convivenza, figuriamoci quanto fascino eserciti lo Stato. Non c’è collante ideologico né religioso che tenga. Tutto è frammentato. Attraversare i quartieri di Miami, racconta Wolfe, è come passare da piccola patria a piccola patria. In questo caso ci si aggrappa al concetto arcaico di tribù. All’interno di ogni enclave dominano le ragioni del sangue, come recita il titolo del suo libro (quello originale, “Back to Blood”, era ancora più esplicito).

Le regole del proprio gruppo etnico sono superiori alla legge, un intralcio da aggirare. È un fallimento totale così riassunto da uno dei personaggi: “Tutti odiano tutti”. (Alessandro Gnocchi, La Stampa).

Fortunatamente queste situazioni esasperate non sono ovunque e, in molte città, sono in atto degli anticorpi rappresentati da tante persone e associazioni che mantengono vivo il rapporto città-comunità-solidarietà, e che sono impegnate a ritessere quella trama relazionale che bilancia le esasperazioni del mercato.

Ma, per ora, il pendolo resta bloccato in alto, perché il pensiero dominante è fermo sulla linea del talebanismo del mercato, dell’individualismo spinto, del profitto come unica misura, della lotta di tutti contro tutti. Per fortuna, però, anche sul fronte del pensiero qualcosa si muove.

Già nel 1963 il grande studioso e intellettuale americano Adolf A. Berle, nel suo libro “La Repubblica Economica Americana”, aveva ammonito che “il profitto personale o il desiderio del potere non inducono a fare grandi sforzi per accrescere le capacità o espandere la cultura degli altri uomini o per accrescere le risorse umane nella collettività o per sviluppare attività diverse da quelle puramente commerciali.

Se il sistema economico dipendesse soltanto dal movente del profitto, tale sistema tenderebbe a stagnare”. E la crisi scoppiata nel 2007 ha messo in discussione il pensiero dominante.

Negli ultimi decenni ha preso corpo una visione economica alternativa a quella dominante, che viene chiamata “economia relazionale”.

In Italia i maggiori esponenti di questo filone di pensiero sono Stefano Zamagni e Luigino Bruni, entrambi autori di pregevoli libri sull’argomento. Tra questi apprezzo molto quello di Luigino Bruni intitolato “La ferita dell’altro” (Ed. Il Margine) che analizza in modo approfondito questa tesi: “Sono convinto che una società senza mercati e contratti non sia una società decente; ma anche che una società che ricorre solo a mercati e contratti per regolare i rapporti umani lo sia ancora meno”. Non posso certo approfondire qui questo filone di pensiero profondo e complesso.

Posso solo schizzare i punti fondamentali: l’economia relazionale non vuole cancellare l’economia di mercato, ma vuole contenerla nel suo ambito, riportarla nel suo alveo; la società non è fatta solo di scambi economici (mercato), ma anche di relazioni umane, di comunanze, di attività che incorporano il dono e la gratuità, di attività fatte insieme con gioia; una società dove tutto è mercato e solo mercato non funziona e diventa triste e inefficiente. “Non è, dunque, il contratto e il mercato che disumanizza e distrugge il legame sociale, ma il voler pretendere di costruire la vita economica e civile solo sul contratto” (L. Bruni); nasce allora la “joyless economy” analizzata da Tibor Scitovsky in un libro del 1976 (dal 2006 anche in italiano: “Economia senza gioia” (Ed. Città Nuova).

Questo filone di pensiero ha radici antiche, come in John Stuart Mill (1869) per il quale la capacità di cooperazione e la vocazione alla reciprocità sono le caratteristiche antropologiche fondamentali che rendono possibile sia la vita della famiglia che quella della società. Ma soprattutto si trova nella tradizione italiana dell’economia civile, che affonda le sue radici profonde nel Medioevo cristiano delle abbazie e delle città medioevali.

In epoca moderna bisogna rifarsi alle magnifiche lezioni di Antonio Genovesi, protagonista principale della prima grande scuola di economia europea, quella del ‘700 a Napoli. Secondo Genovesi l’obiettivo principale dell’economia politica è la “pubblica felicità”, e “niuno stato umano è da reputarsi più infelice quanto è quello di essere soli, cioè segregati da ogni commercio de’ nostri simili”. La fede pubblica è la prima risorsa per lo sviluppo economico (“Quando in una nazione vacillano i fondamenti della fede etica, neppure quelli dell’economia e della politica possono stare saldi”).

È necessario e utile lavorare per il proprio interesse, ma in un sistema di reciprocità e di collaborazione: “Fatigate per il vostro interesse; niuno uomo potrebbe operare altrimenti che per la sua felicità; sarebbe un uomo meno uomo: ma non vogliate fare l’altrui miseria; e se potete, e quanto potete, studiatevi di far gli altri felici.

Quanto più si opera per interesse tanto più, purché non si sia pazzi, si debb’esser virtuosi. È legge dell’universo che non si può far la nostra felicità senza far quella degli altri” (Autobiografia e lettere di Antonio Genovesi, cit. da L. Bruni). Altri filoni di pensiero (penso soprattutto all’Economia Sociale di Mercato e alla Dottrina Sociale della Chiesa) si intersecano con quello dell’economia civile e relazionale, e si completano e rafforzano a vicenda, nello sforzo di rimettere il pendolo in posizione più equilibrata e di dar vita ad una economia umanistica e responsabile e, quindi, anche più efficace e più efficiente di questa “joyless economy”.

Ma, deve essere chiaro, si tratta di uno sforzo titanico e quasi disperato, perché gli interessi e le idee sbagliate, che dominano la nostra attuale economia, sono potentissimi.

http://it.paperblog.com/economia-di-mercato-ed-economia-relazionale-3417301/

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