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Condominio e condòmini come parti del processo: le sentenze della Cassazione

Legittimazione processuale dell’amministratore ed intervento del singolo condomino

Secondo l’orientamento tradizionale della Corte di Cassazione, la legittimazione processuale dell’amministratore di condominio, accordata dall’art. 1131 c.c. nei limiti delle sue attribuzioni, in ordine alle liti aventi ad oggetto interessi comuni dei condomini, rappresenta niente più che una deroga alla disciplina valida per ogni altra ipotesi di pluralità di soggetti del rapporto giuridico dedotto in lite, sopperendo all’esigenza di rendere più agevole la costituzione del contraddittorio nei confronti del condominio, senza la necessità di promuovere il litisconsorzio nei confronti di tutti i condomini.

Questa consolidata ricostruzione dei rapporti fra i condomini implica una forma di rappresentanza processuale reciproca, attributiva a ciascuno di una legittimazione sostitutiva, nascente dal fatto che ogni compartecipe non potrebbe tutelare il proprio diritto senza necessariamente e contemporaneamente difendere l’analogo diritto degli altri.

Ragionando così, il condomino che intervenga personalmente nel processo in cui sia già parte l’amministratore ed in cui sia dedotta una situazione giuridica ascrivibile alla collettività condominiale, non si comporta come un terzo che si intromette in una vertenza fra estranei, ma appare come una delle parti originarie determinatasi a far valere direttamente le proprie ragioni (Cass., 16 maggio 2011, n. 10717; Cass., 28 agosto 2002, n. 12258; Cass., 25 maggio 2001, n. 7130); sicché, tale intervento non conoscerebbe nemmeno le preclusioni segnate dall’art. 268 c.p.c. e, ove spiegato in grado di appello, dall’art. 344 c.p.c. (Cass., 27 gennaio 1997, n. 826). Soltanto, infatti, se il singolo condomino venisse considerato titolare di un interesse distinto, diverso nei fatti costitutivi da quello comune rappresentato dall’amministratore, il suo intervento troverebbe disciplina negli artt. 268 e 344 c.p.c.: di tal che, il condomino che volesse intervenire non in via autonoma, ma unicamente per sostenere le ragioni del condominio, svolgendo quindi un intervento adesivo dipendente rispetto alla posizione già rappresentata dall’amministratore, come tale inidoneo ad ampliare l’oggetto del processo, potrebbe costituirsi in primo grado sino a che non vengano precisate le conclusioni, mentre sarebbe impedito dal costituirsi in appello; laddove il condomino intenzionato ad intervenire per proporre una domanda autonoma, e quindi nuova, dovrebbe rispettare il termine per la tempestiva costituzione del convenuto, o, al massimo, costituirsi entro l’udienza di trattazione.

Conseguentemente, si è altresì ritenuta l’incapacità a testimoniare dei singoli condomini nelle controversie in cui l’amministratore abbia assunto la rappresentanza del condominio a tutela delle cose o dei servizi comuni, essendo i primi già parti per il tramite del loro necessario rappresentante (Cass. 23 agosto 2007, n. 17925; Cass. 16 luglio 1997, n. 6483).

Impugnazione della sentenza contro il condominio proposta dal singolo condomino

Tale impostazione induce a ritenere ammissibile altresì l’impugnazione da parte del singolo condomino della sentenza di condanna emessa nei confronti dell’intero condominio, senza alcuna necessità di integrare il contraddittorio nei confronti dei condomini non appellanti, né intervenienti in appello, e senza che ciò determini il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado nei confronti di questi ultimi (cfr. Cass. 21 giugno 1993, n. 6856). Al contrario, non appare configurabile il riconoscimento, a favore del singolo condomino, il quale non si sia costituito personalmente nel relativo giudizio, della facoltà di proporre opposizione di terzo avverso una sentenza emessa in un giudizio del quale sia stato parte l’amministratore.

Si è affermato pure che ove la sentenza di primo grado sia stata notificata all’amministratore costituito per conto del condominio, tale notifica è idonea a far decorrere il termine breve per l’impugnazione anche rispetto ai condomini che non fossero costituiti nel giudizio di primo grado (Cass. 11 gennaio 2012, n. 177). E che il giudicato formatosi nel processo cui era costituito l’amministratore fa stato anche nei confronti dei singoli condomini non intervenuti nel giudizio (Cass. 24 luglio 2012, n. 12911; Cass. 22 agosto 2002, n. 12343).

Ancora di recente, Cass. 6 agosto 2015, n. 16562 ha così riconosciuto la generale ed indistinta legittimazione di ciascun condomino ad impugnare una sentenza pronunciata nei confronti dell’amministratore. Il Supremo Collegio ha premesso la tradizionale definizione secondo cui il condominio è un ente di gestione sfornito di personalità distinta da quella dei suoi partecipanti, sicché l’esistenza dell’organo rappresentativo unitario non priva i singoli condomini del potere di agire a difesa di diritti connessi alla detta partecipazione, né, quindi, del potere di intervenire nel giudizio per il quale tale difesa sia stata legittimamente assunta dall’amministratore e di avvalersi dei mezzi d’impugnazione, al fine di evitare gli effetti sfavorevoli della sentenza pronunziata nei confronti dell’amministratore stesso che non l’abbia impugnata. La pronuncia n. 16562/2015 ha espressamente disatteso, invece, un altro indirizzo della medesima Cassazione, ad avviso del quale dovrebbe escludersi la legittimazione processuale del singolo condomino, sia pure in caso di inerzia dell’amministratore, allorché si controverta su deliberazioni dell’assemblea che perseguano esclusivamente finalità di gestione di un servizio comune, in quanto non idonee ad incidere, se non in via mediata, sull’interesse esclusivo di uno o più partecipanti (in tal senso, (Cass. 21 settembre 2011, n. 19223; Cass. 4 maggio 2005, n. 9213; Cass. 3 luglio 1998, n. 6480;Cass. 29 agosto 1997, n. 8257; Cass. 12 marzo 1994, n. 2393). Cass. n. 16562/2015 osserva, al riguardo, che è priva di qualsiasi fondamento normativo la distinzione tra incidenza immediata, oppure mediata, sulla sfera patrimoniale del singolo, derivante della caducazione di una decisione sulla gestione della cosa comune, operata allo scopo di identificare i soggetti legittimati alla relativa impugnativa.

Il singolo condomino è ‹‹parte del processo solo se vi intervenga››

Com’è noto, Cass., sez. un., 18 settembre 2014, n. 19663, risolvendo un contrasto interpretativo tra precedenti decisioni della stessa Suprema Corte, ha affermato che, in ipotesi di giudizio intentato dall’amministratore di condominio, pur autorizzato dall’assemblea, a tutela di diritti connessi alla situazione dei singoli condomini, ma senza che questi ultimi siano stati parte in causa, la legittimazione ad agire per l’equa riparazione, correlata alla violazione del termine ragionevole del processo, spetta esclusivamente al condominio, da intendere ormai quale autonomo soggetto giuridico. Le stesse Sezioni Unite hanno ricordato come la giurisprudenza abbia sempre costantemente riconosciuto ai singoli condomini il potere di agire in difesa dei diritti connessi alla loro partecipazione, nonché, quindi, la facoltà di intervenire nel giudizio in cui tale difesa fosse stata già assunta dall’amministratore e di avvalersi dei mezzi di impugnazione per evitare gli effetti della soccombenza patita dal condominio. Tuttavia, la sentenza n. 19663 del 2014 dapprima afferma che la nozione di “ente di gestione” rischia di ingenerare equivoci e poi dall’analisi della Riforma del condominio (legge 11 dicembre 2012, n. 220) trae il convincimento della progressiva configurabilità in capo al condominio di una sia pur attenuata personalità giuridica, ovvero comunque sicuramente di una soggettività giuridica autonoma. Sicché, se la pregressa richiamata costruzione giurisprudenziale aveva ritenuto che il singolo condomino dovesse sempre considerarsi parte nella controversia tra il condominio ed altri soggetti, anche se rappresentato ex mandato dell’amministratore, proprio per la prospettazione dell’assoluta mancanza di soggettività del condominio, questa impostazione, avvertono le Sezioni Unite, entra in crisi ove ci soffermi sull’autonomia del condominio come centro di imputazione di interessi, di diritti e doveri, cui corrisponde una piena capacità processuale. In tal caso, infatti, il singolo condomino dovrà «essere considerato “parte” in quel processo solo se vi intervenga», e non, invece, già «qualora sia rappresentato dall’amministratore».

Questa nuova configurazione potrebbe, allora, portare con sé una conseguenza diversa da quella appena ribadita in Cass. n. 16562/2015: dovrebbe, invero, venir meno la legittimazione del singolo condomino (non costituitosi autonomamente) all’impugnazione della sentenza di primo o di secondo grado resa nei confronti del condominio. Fatta eccezione per l’opposizione di terzo, infatti, la legittimazione all’impugnazione spetta esclusivamente a chi abbia assunto la qualità di parte nel giudizio conclusosi con la sentenza impugnata e nei cui confronti la sentenza risulti emessa. La peculiare legittimazione all’impugnazione riconosciuta dalla giurisprudenza ai condomini rimasti in precedenza estranei al giudizio trovava la sua ragione, per contro, nell’argomento, superato da Cass. sez. un. 19663 del 2014, della loro automatica assunzione della qualità di parte per effetto della sola costituzione dell’amministratore mandatario. Né potrebbe più reputarsi che il giudicato formatosi all’esito di un processo in cui sia stato parte il solo amministratore di condominio, faccia stato anche nei confronti dei singoli condomini, ove gli stessi non siano effettivamente intervenuti nel giudizio, assumendo perciò la veste di “parte” rilevante agli effetti dell’art. 2909 c.c.

Limiti della legittimazione processuale dei singoli condomini

La peculiare legittimazione all’intervento come all’impugnazione, riconosciuta ai singoli condomini in via reciproca, nonché sostitutiva di ogni precedente o diversa iniziativa dell’amministratore, trova, peraltro, la sua ragione esclusivamente nella partecipazione degli stessi al diritto di proprietà sulle parti comuni dell’edificio, ovvero nel loro diritto esclusivo di proprietà sulla singola unità immobiliare.

Nell’ambito delle dinamiche condominiali, tutte le posizioni di natura reale vengono soltanto per esigenze di semplificazione unitariamente rappresentate dall’amministratore o gestite dall’assemblea “nell’interesse comune”, ma non possono mai prevaricare il diritto individuale “pro quota” di ciascun condomino in ordine alle parti elencate dall’art. 1117 c.c. E’, quindi, questa indispensabile coesistenza tra gestione e rappresentanza unitarie e frazionabilità dei poteri sui beni comuni che giustifica anche la concorrente legittimazione processuale riconosciuta altresì ai singoli partecipanti per le azioni inerenti all’estensione della proprietà condominiale. Da tale cerchia, che comprende, in sostanza, tutte quelle situazioni reali le quali necessariamente sono riferibili in via immediata ad ogni condomino in misura proporzionale al valore dalla rispettiva quota, esulano, allora, quei rapporti che concernono non i diritti in sé su beni o servizi comuni, bensì la gestione di essi, in quanto intesi a soddisfare esigenze soltanto collettive della comunità condominiale. In queste ultime fattispecie, non può ravvisarsi alcuna correlazione tra l’interesse direttamente comune e l’interesse mediato esclusivo di uno o più dei partecipanti. Si pensi agli obblighi di manutenzione, riparazione e custodia dei beni di proprietà comune, i quali costituiscono il contenuto di situazione soggettive che si imputano al condominio come tale e sono esercitate attraverso i suoi organi. Mancando per tali situazioni collettive condominiali ogni potere di disponibilità sostanziale in capo al singolo condomino, ne discende inevitabilmente che manchi allo stesso qualsiasi legittimazione processuale al riguardo. Sicché il potere di intervento in giudizio e di impugnativa del singolo potrà affermarsi in materia di controversie aventi ad oggetto azioni reali, incidenti sul diritto pro quota o esclusivo di ciascun condomino, o anche azioni personali, ove incidenti in maniera immediata e diretta sui diritti di ciascun partecipante; mentre non si dovrebbe ammettere l’impugnazione individuale relativamente alle controversie aventi ad oggetto la gestione o la custodia dei beni comuni, in nome delle esigenze plurime e collettive della comunità condominiale. Nelle cause di quest’ultimo tipo, essendo la situazione sostanziale riferibile unicamente al condominio in quanto tale, la legittimazione ad agire e, quindi, anche ad impugnare, dovrebbe spettare in via esclusiva all’amministratore, e la mancata impugnazione della sentenza da parte di quest’ultimo dovrebbe finire per escludere la possibilità d’impugnazione da parte del singolo condomino.

L’efficacia esecutiva della sentenza di condanna del condominio

Sempre partendo dal tradizionale postulato che la legittimazione passiva dell’amministratore rende superfluo il litisconsorzio passivo di tutti i condomini, si è spesso deciso in passato che la sentenza recante condanna del condominio, per un credito vantato da chi abbia contratto con l’amministratore, equivalga a sentenza di condanna nei confronti di tutti i condomini, solidalmente obbligati al pagamento dell’intero credito (così ancora Cass., sez. un. 8 aprile 2008, n. 9148, sia pure sull’assunto dell’obbligo parziario dei singoli in proporzione della rispettiva quota millesimale) .

Essendo eventuale e sussidiaria la legittimazione passiva dell’amministratore, il terzo può legittimamente instaurare il contraddittorio nei confronti di tutti i condomini, anziché dell’amministratore, ovvero chiamare in giudizio, oltre a quest’ultimo, alcuni condomini per l’accertamento del fatto costitutivo di quella che sarebbe un’unica obbligazione immediatamente azionabile anche nei loro confronti (Cass. 19 aprile 2000, n. 5117).

Secondo la Suprema Corte, dalla riferibilità ai condomini delle obbligazioni assunte dall’amministratore in nome e per conto del condominio, si potrebbe desumere l’eseguibilità contro i medesimi condomini della sentenza di condanna dell’amministratore (Cass. 11 novembre 1971, n. 3235; Cass. 14 dicembre 1982, n. 6866). Al punto da negare proprio l’interesse del creditore, che abbia già ottenuto sentenza definitiva di condanna al pagamento di una somma di denaro nei confronti del condominio, ad agire contro il singolo condomino per il pagamento pro quota della stessa somma, disponendo egli di un titolo esecutivo per l’intero importo, azionabile pure nei confronti dei partecipanti (Cass. 14 ottobre 2004, n. 20304).

Va però ora detto che, alla stregua della ricostruzione operata dalle Sezioni Unite della Corte di cassazione, con sentenza n. 19663/2014, dovendosi tener conto dei limiti soggettivi del giudicato ex art. 2909 c.c., non sembra più pacificamente sostenibile che la sentenza recante condanna del condominio, per un credito vantato da chi abbia contratto con l’amministratore, equivalga a sentenza di condanna nei confronti di tutti i condomini. Se, infatti, il singolo condomino, come spiegato dalle Sezioni Unite del 2014, non assume le vesti di parte del giudizio promosso nei confronti dell’amministratore finché non si costituisca formalmente in esso, non potrà più intendersi la sentenza resa nei confronti dell’amministratore stesso come pronunciata in un giudizio cui abbiano, in sostanza, partecipato anche individualmente i condomini”.

Per di più, dopo la Riforma della disciplina condominiale del 2012, affermare, che «conseguita nel processo la condanna dell’amministratore, quale rappresentante dei condomini, il creditore può procedere all’esecuzione individualmente nei confronti dei singoli», varrebbe a favorire un’agevole elusione del vigente art. 63, comma 2, disp. att. cod. civ., il quale fa divieto ai creditori di agire nei confronti degli obbligati in regola coi pagamenti se non dopo aver preventivamente escusso i condomini morosi, visto che tale beneficio d’escussione non può ritenersi efficace unicamente come limite alla fase esecutiva, quanto impeditivo già dell’azione di condanna in sede di cognizione”.

http://www.quotidianogiuridico.it/docum … cassazione

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