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Fini si candida come successore di Berlusconi

Congresso Pdl, il giorno di Fini
“Serve una stagione costituente”

Seconda giornata dei lavori alla Nuova Fiera di Roma, parla il leader di An. Al centro dell’intervento le riforme, l’immigrazione, la laicità delle istituzioni

Cari amici,

Oggi Gianfranco Fini ha fatto le “prove” da leader e successore di Berlusconi, e si è portato a casa un successo personale notevole!

Sullo sfondo dell’ unione politica tra Forza Italia e Alleanza Nazionale, vi è l’ esigenza di costruire un futuro “possibile” per la destra italiana.

Siccome Berlusconi ha la sua ormai tarda età (anche se dimostra i suoi eterni trent’ anni), è necessario che sullo sfondo si preparino altri “conducenti del vapore”.

Fini è il più gettonato e il favorito, ma io preferisco Giulio Tremonti.

Ho letto con attenzione il libro “la paura e la speranza”, scritto da Giulio in occasione di ciò che allora era l’ inizio della crisi economica attuale, e mi sono convinto che, dietro l’ aria da “primo della classe”, Tremonti abbia una passione sociale e una consapevolezza da non sottovalutare.

Mi piace scrivere che questo è il primo congresso della cosiddetta “destra” in cui è possibile cogliere diverse “linee di pensiero” in concorrenza all’ ingombrante pensiero unico del grande leader “Berlusconi”.

Uno sprazzo di luce nella grigiosità politica che siamo costretti a subìre ogni giorno sia da destra, sia (mi dispiace!) da sinistra, costretta dal suo canto a coprire l’ assenza di prospettive costruttive e di leaders capaci con generiche accuse di populismo.

Resta da capire se Berlusconi sarà così intelligente da lasciare la guida del partito ad un suo “prediletto” prima che l’ età e la salute lo costringano a mettersi da parte in modo improvviso, lasciando un vuoto di potere che potrebbe portare ad una crisi imprevedibile nel cosiddetto “popolo della libertà”.

Repubblica

ROMA – Gianfranco Fini scalda decisamente la seconda giornata del congresso Pdl e il primo a capirlo è Silvio Berlusconi. Il presidente della Camera ha appena finito un discorso alto e non facile in cui ha riproposto i temi duri della società multietnica e ha attaccato esplicitamente il testo sul testamento biologico approvato dal Senato, la sala esplode in un lungo applauso con sventolio di bandiere e Silvio (mai lasciare la scena a un altro) si materializza sul palco accanto a Gianfranco: lo abbraccia, lo bacia e urla nel microfono: “Anche per spazzare le malignità e le malizie sul fatto che io e Gianfranco non ci si voglia bene…”.

Gianfranco, in realtà, si era già placato ieri cogliendo i segnali di pace contenuti nel lungo e noioso discorso del leader: il riferimento alle intuizioni unitarie di Pinuccio Tatarella, il “no” al pensiero unico, l’idea che non si tratta di uno scioglimento di An in Fi, ma della fusione di due storie dignitose con un lungo cammino (15 anni) già in comune. Le cose, insomma, che Fini voleva sentirsi dire e che gli hanno permesso un intervento tutto sui temi che il presidente della Camera ha fatto decisamente suoi: qualità della democrazia e riforme istituzionali (da fare insieme all’opposizione), assetto economico (con i tre patti: generazionale, capitale-lavoro e Nord-Sud) e disegno dell’Italia del futuro multietnica, multireligiosa con i quali deve fare i conti (e non scontrarsi) chiunque voglia governarla.

Ma già prima di Fini, gli interventi della mattinata avevano mostrato un congresso più vivo rispetto all’orrendo torpore di ieri fasciato nel culto della personalità berlusconiana. Almeno si sono sentite voci qua e là diverse, qua e là in grado di porre qualche problema all’assise congressuale e al partito che sta nascendo.

Schematizzando, intanto, si può dire che (nonostante Fini) la differenza tra quelli di An (finiani in particolare) e gli ex di Forza Italia si sente e come. Gli interventi si potrebbero assegnare all’una o all’altra schiera anche senza ascoltare i nomi. In genere, gli ex di An puntano l’attenzione sul “no” al pensiero unico, sulla necessità del dibattito interno, sulla pari dignità politica e culturale, sulla necessità del dibattito interno. Gli ex forzisti, invece (con debite eccezioni) tendono più a rimarcare i successi e il ruolo di un partito “che non è di destra, non è di sinistra” ma è “popolo” e, in quanto tale, si sovrappone esattamente al Paese con buona pace di quelli che non la pensano come loro.

Tre interventi, comunque, hanno segnato la mattinata prima di Fini. Quello di Maria Stella Gelmini che ha chiarito (semmai qualcuno non lo avesse ancora capito) che lei ce l’ha con chi pensa (insegnanti? genitori? studenti?) che “la scuola appartenga alla sinistra”. A scanso di equivoci il ministro conferma che “un’epoca è finita”. Quale? Quella di chi ha sempre considerato la scuola come un luogo dove “alimentare ideologie vecchie e bocciate dalla storia”. Insomma, via la sinistra (ma anche i sindacati di sinistra) dalla scuola, altrimenti ci pensa il ministro.

Anche Brunetta pensa a tutti, a cominciare dai guasti del Paese che “vanno affrontati a muso duro”. Anche lui ce l’ha con i sindacati e le burocrazie parassitarie contro le quali annuncia addirittura “la lotta di classe”. Brunetta, comunque, ammette che “siamo sfigati, perché ogni volta che andiamo al governo c’è la crisi” e che “non siamo perfetti. Anzi, siamo pieni di difetti, ma siamo rivoluzionari”.

Un altro che pone qualche problema al congresso (come si fa ai congressi veri) è Fabrizio Cicchitto. Lui, dovendosi occupare di organizzazione e della formazione delle liste per le prossime elezioni europee e amministrative, sa benissimo che problemi ce ne sono e ce ne saranno. E lo dice con una certa chiarezza. Poi, difendendo le battute di Berlusconi sulle modifiche dei regolamenti parlamentari, afferma: “Non è un attacco al Parlamento, ma un modo per rispondere all’antipolitica”.

Di riforme, si diceva, ha parlato moltissimo Fini. Il presidente della Camera, sgomberato il terreno dal problema dei rapporti col premier, è partito sul suo terreno. Quello di una “qualità della democrazia” che chiama importanti cambiamenti anche costituzionali (soprattutto sulla seconda parte della Carta fondamentale) che andranno fatti con l’opposizione. “Una frande stagione costituente”, l’ha definita il presidente della Camera. Qui Fini invita a “stanare” l’avversario “dormiente e incapace di scegliere”, ma si capisce che in lui c’è anche l’ansia di evitare che certe cose siano fatte a colpi di mano. Chiaro, comunque, il suo disegno di cambiamento: Parlamento con la Camera federalista e più spazio per il potere esecutivo. Questa volta, però, visto che Berlusconi ha rinfoderato le armi, Fini non solleva la questione del controllo parlamentare sull’esecutivo.

Poi, Fini ha lanciato i tre patti sull’assetto economico. Quello generazionale e quello tra Nord e Sud sono patrimonio ormai comune di tutte le forze sociali; quello tra capitale e lavoro (insieme all’economia sociale) viene dal pantheon ideologico della destra, ma va detto che Fini cerca di coniugarlo con tocchi di modernità e riconoscendo la necessità di cambiare profondamente il capitalismo per uscire dalla crisi mondiale.

Poi, come domenica scorsa, la parte più avanzata del suo discorso. Quella che disegna un’Italia con tanti “cittadini di colore e di religione diversi dai nostri”, quella che invita a non aver paura del diverso e a capire bene che “prima di tutto una persona è un bambino e un malato e solo dopo un extracomunitario”, quella che parla esplicitamente di “laicità dello Stato”.

In fondo (Fini dice proprio “in cauda venenum”) una freccia avvelenata: “Siamo sicuri che il testo approvato al Senato sia laico? Quando si impone un precetto per legge, siamo più vicini allo Stato etico che allo Stato laico”. La battuta è pesantissima per le recenti scelte del Pdl a Palazzo Madama e pone qualche problema visto che c’è ancora il passaggio alla Camera dove Fini presiede e dove ci sono molti deputati finiani. Ma il congresso, ormai, applaude qualsiasi cosa e Fini è travolto dall’ovazione.

Nel tardo pomeriggio, due interventi attesi: quello del presidente del Senato Renato Schifani e quello del ministro dell’Economia, Giulio Tremonti. Schifani ha difeso il testo sul testamento biologico (“Abbiamo riempito un vuoto normativo”) e ha sostenuto (d’accordo con il presidente della Camera) la necessità di riformare la seconda parte della Costituzione.

Tremonti, ovviamente, ha parlato della crisi economica: “Il mondo nuovo che si aprirà
potrà essere migliore del mondo vecchio e il meglio dipenderà da noi. E noi – assicura il ministro – sapremo costruirlo, proprio perchè siamo dal lato giusto della storia”. Qui Tremonti, secondo il suo pensiero più recente, si mostra molto più statalista di una volta: “Il lato giusto della storia è quello dello Stato di diritto classico, basato sull’equilibrio tra società, politica e mercato”. Un tipo di Stato che, sostiene il ministro, “contiene insieme tanto il privato quanto il pubblico. Non il privato sopra il pubblico. Non il pubblico sopra il privato. Ma privato e pubblico insieme e fusi nell’idea equilibrata dell”economia sociale di mercato”. Poi, conclude accusando l’opposizione di “soffiare sul fuoco della crisi sperando di trarre dal male il suo bene” e abbraccia Berlusconi affermando che il Cavaliere “è già nella Storia”.

E l’uomo della Storia torna a parlare domani, in tarda mattinata. Poi, tutti a casa a verificare come nasce davvero il Pdl.

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