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Hina siamo noi

Le donne musulmane si costituiranno parte civile nel processo contro i carnefici di Hina Saleem, la ragazza di origine pachistana trucidata a coltellate e gettata in un sacco della spazzatura dal padre e dai fratelli perché “rea” di amare un italiano e – come scrivono i giornali – di “voler vivere all’occidentale”.

Un’espressione che contestiamo. Hina non voleva vivere “all’occidentale”. Hina voleva semplicemente essere sé stessa. Occidentale od orientale, poco conta: si è sempre donne di qualcuno. E le donne sono un po’ delle apolidi: da qualsiasi parte si trovino, avranno sempre alle calcagna qualche maschio padrone pronto a negar loro i più elementari diritti. Si tratti del prete scomunicante, dell’imam lapidatore, dell’impotente che le sevizia, del ”compagno” incapace di tollerare che la partner non è “roba” sua, e gliela fa pagar cara, magari strappandole i genitali (è accaduto la scorsa settimana); si tratti del parlamentare che non cede la sua cadrega a una femmina e legifera in nome suo, e sentenzia, e tuona contro la piaga dell’aborto, perché, tanto, non è lui a subirlo; si tratti del conduttore di show in cui le donne compaiono solo come svestiti soprammobili, esposti alla bramosia televisiva di citrulli altrimenti incapaci di soddisfare qualsivoglia desiderio concreto; si tratti del programma scolastico in cui si è costretti a mandare a memoria il Tumulto dei Ciompi ma alle conquiste del movimento femminista, l’unica rivoluzione riuscita del Novecento – e, forse, dell’intera umanità – non è dedicata nemmeno una riga.

E tutto quanto infischiandosene del fatto che la maggioranza degli studenti sono di sesso femminile, di norma anche più capaci e preparate.

Anche la penosa diatriba legata alle unioni di fatto, ai Family Day con annessi & connessi è legata in fondo a questo tema. Il terrore alla base di certe isterie, soprattutto da parte di clericali e conservatori, non sono infatti gli omosessuali (maschi, ovviamente: delle lesbiche non suppongono neppur l’esistenza…), ma lo stravolgimento dell’idea di famiglia legato all’emancipazione delle donne; la loro capacità di auto-determinarsi e trovare nuove forme di relazione. Non dimentichiamo che, all’alba della Costituzione, l’ala intransigente del cattolicesimo esigeva si stilasse un articolo in cui si ribadiva il valore della famiglia gerarchica con l’uomo come capo. La stessa figura di “capofamiglia” è scomparsa giuridicamente (ma non nella mentalità comune) solo nel 1975. Al 1992 (1992!) risale la definizione di stupro come reato contro la persona. Fino a quell’anno era catalogato fra le offese alla morale, quasi alla stessa stregua di chi diffonde materiale pornografico.

Viviamo in un mondo di donne, dove le donne sono maggioranza anche numerica; ma con una testa, anzi con viscere, maschili.

Viscere talmente viscerali, che persino molte donne ne sono intrise (si pensi a Condoleezza Rice: semplicemente un uomo in gonnella). Detestabili, le cosiddette “donne con le palle”

Daniele Mastrogiacomo, nel memoriale redatto all’indomani della sua liberazione, l’aveva scritto a chiare lettere: “Non è nemmeno che i Taliban odino le donne. Ma le considerano un problema. Qualcosa che sfugge al loro orizzonte mentale”. Un’umanità altra finisce presto per diventare un’altra umanità. Cioè, aliena. Mentre non accadrà mai, a meno di un deliberato antagonismo politico/culturale, che le donne concepiscano sé stesse come un unicum incontestabile, per gli uomini questa è prassi normalissima. Gli uomini si sentono auto-sufficienti, non obbligati a mettersi in dialogo con chi gli sta di fronte. Figurarsi se su un piano di parità.

A chi è pregno di una cultura dell’esclusione, gli individui fusionali non possono che incutere sospetto e paura. Di conseguenza le donne sono sempre state considerate delle potenziali sovvertitrici: “un problema”, appunto. Devono essere tenute soggette, altrimenti… non si sa cosa potrebbero combinare (e ciò, peraltro, costituisce la più clamorosa smentita alla teoria per cui esse non hanno cervello). Come scriveva un pio autore medievale: “La donna va tenuta sottomessa e occupata: quando è sola, pensa a cose cattive”.

La cosa cattiva di Hina era il voler vivere con pienezza. In qualsiasi modo. Non, dunque, all’occidentale. Avesse scelto il velo sarebbe cambiata la forma, non la sostanza. La tragedia di Hina non è quella di una donna musulmana, ma di una donna e basta. Rallegra che le sue correligionarie abbiano preso atto dell’universalità di un’appartenenza. Compito delle occidentali è affiancarle in questo cammino di consapevolezza. Perché ognuna di noi, almeno una volta, si è sentita Hina.

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