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Lo stato non è un debitore qualsiasi; lo stato siamo noi

Lo stato non è un debitore qualsiasi, lo stato siamo noi!

C’è un solo caso in cui è vera la vulgata che uno Stato è come una famiglia e non deve "vivere al di sopra delle proprie possibilità".

E’ il caso in cui questo Stato debba finanziarsi sui "mercati", cioè presso il sistema bancario: verso questi creditori, e verso questi soltanto, in relazione al proprio fabbisogno non coperto da entrate, è un debitore qualsiasi.

E come tale non deve accumulare ulteriore debito creando nuove passività di gestione dei suoi affari, perchè altrimenti si troverà a pagare troppi interessi (aumentati per crescita della propria domanda di credito dovuta, a un certo punto, esclusivamente al maggior accumulo degli interessi da pagare). Si tratta dunque di un’affermazione ontologicamente "relativa", che assume senso solo se rapportata a una categoria sociale ben delimitata e solo nei termini della sua convenienza.

Ma questa non è una situazione che gli Stati siano costretti ad affrontare per loro natura e funzione: è una scelta politica che essi "possono" fare, se lo desiderano in quanto ritengano di beneficiare, col pagamento dei crescenti interessi, il sistema bancario (dato che questo è normalmente il "prestatore" operante e organizzato che dispone dei relativi capitali per tale tipo di operazioni).

Nessuno, in teoria, può obbligare gli Stati a farlo, ove conservino la sovranità monetaria.

Gli Stati, normalmente, hanno il potere di stamparsi la moneta necessaria, ordinandolo ad un soggetto pubblico creato ed organizzato per farlo: il "tesoriere" (v. par.5). Che è colui che ha il "potere" conferitogli dallo Stato (cioè delegatogli dal titolare "a titolo originario" della integrale sovranità, intesa come capacità incontestabile di suprema decisione per l’interesse generale, esercitata su una certa comunità di un certo territorio) di stampare la moneta "ufficiale", riconoscibile come tale e quindi, sempre in base a regole che lo Stato detta in autonomia, "avente corso legale".

Normalmente, il debito dello Stato, o meglio il suo indebitamento annuale, è determinato dalle minori entrate rispetto alle maggiori spese nello stesso periodo.
Solo che questa situazione che sembra così negativa, è in realtà, in termini di crescita della ricchezza della comunità che quello Stato rappresenta, esattamente invertita: tale ricchezza collettiva sarà esattamente accresciuta di tutta la spesa effettuata e diminuita di tutte le tasse prelevate.

E la spesa aumenta la ricchezza collettiva, il PIL, anche NELLA PARTE che eccede le entrate pubbliche, cioè che costituisce deficit.

Questi elementi, quindi, assumono un senso diverso e di segno opposto sempre e solo dal punto di vista di un eventuale creditore "professionale" dello Stato.
Ma questo, come abbiamo visto, non ha bisogno di avere un creditore, perchè può benissimo emettere moneta in quantità esattamente corrispondente al fabbisogno determinato dalla differenza tra entrate e spesa.

Non dovendo corrispondere così interessi a nessuno. Se decide di consentire a taluno di prestargli la moneta invece di stamparsela è perchè ritiene di doverlo premiare attribuendogli degli interessi corrispettivi che potrebbe trovarsi, se lo volesse, a non pagare mai, ma che rispondono, appunto, ad una sua visione politica, cioè a come decide di redistribuire la ricchezza nazionale in un determinato momento storico.

Questo non significa che uno Stato può spendere quanto vuole e partire per la conquista di Marte per sfruttarne tutte le possibilità minerarie senza preoccuparsi dei costi dell’operazione.

La moneta di quello Stato, al di là della quantità stampata in un determinato anno, avrà un valore (variabile e relativo, cioè rapportato alle monete di altri Stati), correlato alla domanda che ne faranno sia l’insieme dei cittadini, provvedendo a regolare le transazioni che intervengono tra di loro, sia gli appartenenti agli altri Stati (operatori pubblici e specialmente privati). Tale domanda sarà, nel periodo considerato, corrispondente ai valori, cioè prezzi, dei beni e servizi oggetto delle complessive transazioni effettuate in quella moneta.

Cioè la quantità e il valore della moneta, saranno conseguenziali a "fatti" propri dell’economia reale (produzione, in base ai costi dei fattori della produzione, e scambio) di quello Stato, inclusivi del "quanto" vendono, agli operatori residenti in diversi Stati, i cittadini (imprese) residenti. (Nel caso di…Marte, è evidente che tecnologie, expertise e materie prime indispensabili potrebbero non essere disponibili in quello Stato, e che la quantità di moneta necessaria per procurarsele all’estero potrebbe essere in una misura ingentissima e tale da distruggerne il valore di cambio una volta emessa).

Se i cittadini con le loro attività, dimensionate per i più vari motivi, demografici, strutturali-tecnologici, politico-contingenti, danno luodo ad un’economia che non esige la quantità di moneta (aggiuntiva) stampata dallo Stato, questa sarà in eccesso di offerta e perderà di valore: notate è, grosso modo, il principio monetarista di Friedman, solo che considera il punto di partenza effettivo del fenomeno, cioè l’insieme della transazioni reali e le sue ragioni (costi di produzione, vicende socio-culturali, storiche e etno-demografiche), e non un astratto punto di vista istituzionale, cioè la creazione esclusivamente pubblica di moneta, da parte della banca centrale (che non può di per sè automaticamente trasmettersi all’economia reale e creare il predicato eccesso di offerta).

Analogamente, se i pagamenti invece sono prevalentemente verso l’estero, quella moneta sarà offerta e non domandata e il suo valore diminuirà, secondo una, ben nota, legge naturale dell’economia.

Solo che a tale fenomeno di sovraofferta, essenzialmente, non si accompagna automaticamente l’indebitamento dello Stato, ma quello "privato" dei cittadini che richiedono all’estero merci e servizi che non sanno o non trovano conveniente prodursi da soli. Mentre all’evenutale eccesso di moneta emessa rispetto alla domanda nazionale, non si accompagna alcun debito neppure privato, ma semmai la svalutazione della moneta e, in qualche misura, la crescita nominale dei prezzi.

Precisati questi aspetti generali, e senza volerne fare una esauriente cornice teorica, emerge che la quantificazione del livello di emissione monetaria di uno Stato dipende dalla sue capacità di previsione delle dinamiche dell’economia reale, e dalla sua capacità di influirvi, stimolando quei meccanismi sociali, storicamente identificabili in un certo momento, che inducano certi o tutti i consumi, sostenendo la produzione, nonchè investimenti che la aumentino e la modulino sui bisogni diffusi storicamente presenti.

E come fa uno Stato a capire quali siano questi elementi su cui agire, modulando i livelli della spesa pubblica che, se ben calibrata, è sempre fattore di crescita della ricchezza collettiva?

Come tutte le organizzazioni: segue un modello.

E dove lo rinviene, non potendo, per ragioni pratiche di "pace sociale", rimetterlo in discussione ogni anno, e ad ogni evenienza sopravvenuta in una realtà complessa, legata anche al sistema internazionale in cui lo Stato naturalmente si colloca? Dalla Costituzione.

Questa delinea in modo stabile quali siano le ragioni, prima di tutto etiche, cioè di valore umano condiviso, che possono giustificare l’intervento dello Stato, i settori sociali in cui questo deve verificarsi, nonchè il loro livello "minimo" e anche il criterio, caratterizzante la forma stessa della comunità sociale, di massima espandibilità degli stessi. In definitiva, la stessa "quantità" e il valore "relativo" della moneta, conformi a una buona politica di uno Stato, dipendono da questo meccanismo: il perseguimento di un modello di società, dinamicamente imperniato sui suoi valori costituzionali.

Perciò ogni ragionamento sulla razionalità e "idoneità", cioè poi "sostenibilità", di un intervento pubblico, di un bilancio pubblico e della politica fiscale che esso presuppone (nel tempo), dipende, come in tutte le verifiche di razionalità, dalle premesse da cui si parte.

E quindi, affermatosi il valore normativo "supremo" proprio delle Costituzioni moderne, dipende dai fini istituzionali, irrinunciabili e fondativi del legame tra i cittadini, che si rinvengono nella Costituzione.

Non c’è spazio perciò per valutazioni in termini di "vivere al di sopra delle proprie possibilità" demandato alla mera logica contabile del "si spende più di quanto si incassa": primo, perchè questo fenomeno (deficit) non obbliga lo Stato a porsi nella condizione di debitore, secondo perchè se scegliesse di farlo non sarebbe per necessità, ma in seguito a una determinazione politica volta a beneficiare coloro che vengono legittimati alla condizione di creditori.

Talvolta, uno Stato, esponenziale di una società priva di un pregresso sviluppo di infrastrutture industriali e generali, può stabilire che, invece di alimentare con emissione monetaria transazioni a prezzi crescenti, con incrementi puramente nominali in quanto superiori alla variazione della domanda storica di quella comunità statale, si induca a prendere in prestito capitali stranieri. Ma ciò contando sull’ipotesi che lo sviluppo consentito dalla erogazione mirata di quei capitali ai propri citaddini, sblocchi il sub-strato produttivo e consenta di perseguire un modello auspicato (se effettivamente condiviso e non imposto per interessi esteri, cioè di "mercati" alla ricerca di sbocchi).

Il capitale straniero, in questo caso (teorico) consente di ottenere un "nuovo assetto" produttivo e sociale, non altrimenti raggiungibile, che aumenti la capacità di creare valore dell’economia locale, consentendo di restituire quel capitale e gli interessi normalmente garantiti ai prestatori esteri. Questo è un problema di vastissima portata, soggetto a variabili storico-politiche cui il capitalismo e la comunità internazionale hanno dato, negli ultimi due secoli (almeno), varie soluzioni.

Ma tralasciando questo aspetto, rimane il fatto che la valutazione delle politiche di bilancio pubblico, compresa la produzione di un deficit annuale, può essere legittimamente compiuta solo in termini di modello costituzionale perseguito da una determinata società. Non conta cioè se il livello della spesa pubblica, comunque produttiva di crescita, sia "eccessivo" rispetto alle entrate, proposizione che, abbiamo visto, è per definizione a validità "relativa", cioè necessariamente completabile solo sul presupposto della scelta (redistributiva) di ricorrere al finanziamento da parte del sistema bancario e non mediante l’esercizio della sovranità monetaria: conta solo se ciò consente alla società, di cui lo Stato è ente "esponenziale" generale, di perseguire i suoi fini, sacralizzati in una Costituzione.

Il che ci consente anche di estrarre un corollario: la scelta politica di ricorrere al finanziamento privato per attribuire interessi, e cioè risorse pubbliche (normalmente procurate attraverso il resto delle entrate di bilancio), ai privati banchieri, deve essere compatibile, e anzi teoricamente giustificabile nel quadro del perseguimento degli interessi fondamentali sanciti nel modello costituzionale di società. Se la scelta in questione fosse, in parte o, come sempre più si sta ora manifestando, del tutto incompatibile con tali fini costituzionali vincolanti, avremo avuto un MUTAMENTO COSTITUZIONALE EXTRA ORDINEM.

Cioè una frattura della legittimazione delle stesse istituzioni, non più fondata sul "Potere costituente" originario che valida la Costituzione nelle sua sostanza di modello socio-economico democratico, ma su altre basi non più democratiche. E non democratiche in senso formale-giuridico, perchè non giustificabili in nessuna forma di deliberazione consentita dalla Costituzione che, all’art.139 Cost., vieta che la forma repubblicana, inclusiva dei diritti fondamentali (compresi i diritti umani sociali), sia soggetta allo stesso procedimento di revisione costituzionale.

Quello che abbiamo enunciato, d’altra parte, è un principio consolidato del "costituzionalismo" moderno, cioè una acquisizione della civiltà giuridica che assume un valore considerato incontestabile per tutti i paesi che si fondino sulle Costituzioni democratiche in senso moderno.

In cui la "sovranità" è vista come un mezzo vincolato di tutela e PERSEGUIMENTO ATTIVO dei diritti umani e i diritti umani includono, senza arretramenti, i diritti di prestazione sociale di "seconda" e anche di terza generazione.

Cioè sia le prestazioni sociali di sostegno ai bisogni primari individuati nelle stesse Costituzioni (sanità, previdenza, tutela del lavoro, del risparmio, della famiglia in proiezione di filiazione e abitazione), con una uniformità che si compendia con parallele enunciazioni del diritto internazionale generale, sia le prestazioni che implicitamente ma necessariamente ne sono considerate uno sviluppo storico legato all’evoluzione tecnologica ("cultura" in relazione alla evoluzione tecnologica dei mezzi di espressione del pensiero, "ambiente" in relazione alla sua consumazione, specialmente dovuta alla crescente pressione antropica caratterizzata dallo sviluppo industriale e tecnologico).

Sia chiaro: questa prevalenza dei bisogni individuati come "a soddisfazione primaria" nelle Costituzioni, è una prevalenza sulla economia e sulla sua intrinseca logica di perseguimento del profitto.

Non esiste, nella legittimità costituzionale, un livello di profitto che possa dirsi prevalente sul perseguimento di tali fini fondamentali. Neppure in via strumentale: nel senso che non si può affermare che l’espansione del profitto porti alla sua automatica distribuzione e quindi alla crescita del benessere, consentendo di raggiungere progressivamente tutti quegli obiettivi sociali a perseguimento costituzionalmente obbligatorio, proprio una volta che si siano ottenute le risorse necessarie.

Questo modello sociale non solo non è accolto nelle Costituzioni, e certamente non in quella italiana, ma non è neppure altro che una mera aspirazione teorica del capitalismo liberista.

Mai, però registratosi nella Storia; privo cioè non solo di riscontro nella realtà effettuale della storia del capitalismo, – che segnala costantemente le disastrose crisi dovute alla irrealizzazione pratica del presunto crescente beneficio collettivo ottenuto attraverso la "mano invisibile del mercato", cioè della ricaduta collettiva dell’egoismo individuale-, ma, sopratutto, privo di riscontro positivo nelle regole fondamentali del "patto sociale" che consente la pacifica convivenza.

Solo i trattati europei recano tracce evidenti -seppur deliberatamente disseminate con ambiguità- di questa ideologia "liberista" ma essi, come abbiamo più volte visto, non sono altro che trattati internazionali, e non possono prevalere sulle Costituzioni.

Per ora, finchè siamo in grado di ricordarcelo. E finchè la Costituzione sia quella che oggi conosciamo e dovremmo amare.
http://orizzonte48.blogspot.it/2013/05/ … anita.html

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