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Il sogno, l’utopia, la verità

Si chiamava Luz Santamonica e ha attraversato le nostre vite con la potenza rapinosa della cometa. Come quelle comete, che lambiscono una sola volta i firmamenti umani, e paiono lì, fisse e dense nella calotta del cielo, uno sbaffo a olio tra le impalpabilità siderali, Luz aveva portato la sua luce sonora nelle nostre contrade. Veniva da lontano, Luz. Da un Paese “bello”, come soleva ripetere, con la tenerezza e l’irrisolta malinconia d’una bimba costretta a lasciare un oggetto amato senza capir perché. E lontano è tornata, due giorni fa, condannata all’esilio corporeo da un male incurabile. E’ tornata portandoci con sé: fino all’ultimo, nel momento del dolore, ha rivolto un pensiero a noi, ai suoi amici del Centro culturale Color Porpora, che lei considerava “angeli di Dio”.

Amici, sì. Un vocabolo divenuto oggi quasi irritante, a causa della sciatteria con cui lo si utilizza. Amico può esser tutto. Per Luz era di più. Non è stato solo andarsene con dignità e amore. Ha significato un ritorno a quel sogno di bambina. Un sogno di bontà. Un sogno di comunione, dove lei, vestita in abiti chiari, con la gioia e la saporosità d’un tulipano orientale, godeva finalmente dell’intatta stupefazione dei colori elementari. Ed era felice, e ringraziava, e aveva un senso per il suo semplice esistere. Gioiosa della sua totale, inebriante inutilità.

Com’era bello non dover spiegare nulla, vero, Luz?

Ma com’è stato strano, illogico, inaspettato, doverlo riscoprire nell’ultimo viaggio. Dove ha conosciuto, lei ferma su un letto, l’intera umanità di cui, fino ad allora, aveva incrociato soltanto i corpi. Erano nomi con una storia, oppure occhi, anch’essi indispensabile per la loro pura essenza. Erano i volontari della Vidas, erano medici volonterosi. Ma erano, soprattutto, Alberto, Sylvia, Maria Teresa, Pasquale, Michelangelo, Tommaso e tanti altri. In ultima e pudica fila voglio mettermici anch’io. Non per miei particolari meriti. Ma perché ho ricevuto. Mai come in quel giorno di settembre, dopo essermi aperta con lei, avevo incontrato empatia. In un refolo di minuti, uno sbatter di ciglia. Occhi negli occhi. Luz non aveva smesso di immedesimarsi negli altri. Di essere gli altri. Non era una monade, Luz.

Amici, sì. Amico può non significar nulla. E questo nulla, sbattuto in faccia a un uomo come Alberto, è peggio di uno sfregio: è una bestemmia, perché solo grazie alla sua tenacia, possente ed eterea insieme, Luz è stata presa, così, virilmente, e sollevata, da un principe sconosciuto, da un affetto che nessun codice e alcuna chiesa sanzioneranno mai, dall’abnegazione sconsacrata di chi ha saputo parlare coi medici, talora imporsi ad essi, senza essere né il marito, né il fratello, né un qualsiasi lontano parente. Ma un amico, appunto. Un amico e basta. “Solo” un amico, come si dice correntemente. Per la legge italiana, un nessuno.

Grazie a questi nessuno, a silenti e discrete maternità del cuore, Luz non è stata sola nel suo ultimo viaggio terreno. E già, malgrado i segni della malattia, appariva trasfigurata, il giorno che tornava nei luoghi natii, per completare il percorso nella nostra dimensione. Continuava a brillare di luce e di libertà, era già ormai purezza e aria, e i tratti del suo viso avevano preso a somigliare in modo sorprendente ad Aung San Suu Kyi.

Perché anch’essa ha sognato l’utopia. L’utopia della pace, della forza, dell’allegria. Della solidarietà e dell’amore disinteressato; della carità, come si soleva dire. E l’utopia non esiste, per il semplice motivo che non è altrove; gli umani la cercano in modo sbagliato. E’ semplicemente lì, non a un passo da noi, ma in noi, nelle nostre viscere e nei nostri cuori.

Daniela T.:
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