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Monsignor Betori; intervista sulla politica della Chiesa

Monsignor Betori: «Per i cristiani
le persone sono sopra la legge»

L’arcivescovo di Firenze: «nella storia di Eluana l’amore più alto e concreto è quello delle suore»

Cari amici,

Ho trovato molto interessante questo articolo tratto dal Corriere della Sera, che riporta un intervista chiesta ad un esponente autorevole della Chiesa Cattolica.

Il titolo riportato è davvero rivoluzionario: Per i cristiani, le persone sono sopra la legge!

Ora che ci siamo spinti fino a “dire la verità”, ossia ad affermare che la Chiesa ha una “sua” idea di vita, che oppone a tutte le altre visioni a prescindere da quanto siano state sviluppate fino a diventare “leggi”, la questione diventa più complessa e si esprime con questa domanda:

Lo Stato ha il diritto di decidere per legge quando comincia la vita?

Se si vuole estendere al massimo la questione, ci si può domandare anche:

Esiste un limite al potere dello stato?

Queste domande sembrano anacronistiche in un mondo sempre più globalizzato, in cui aziende private ed enti governativi internazionali si contendono i mercati e le merci.

Ma a mio parere, invece, è giunto il momento di tracciare queste nuove forme di pensiero “teorico”, e collegarle ad un “ipotetico” (per adesso) governo mondiale di cui oggi vediamo soltanto gli scenari che lo stanno organizzando.

Mai come oggi il vecchio detto: “La politica o la si fa, o la si subisce”, è attuale.

Se vogliamo dare speranza ai nostri figli, dobbiamo trovare il modo di collegare nuovamente l’ economia alla cultura e all’ arte.

L’ economia non può continuare ad andare avanti da sola, su strade inesplorate, guidata soltanto dal mito del “mercato” e dall’ ambizione del “profitto”.

La Chiesa e la sua storia dimostrano che un istituzione millenaria può mantenersi nel tempo soltanto se è guidata da una visione chiara di se stessa, della storia, e dell’ uomo.

Corriere della sera

FIRENZE — Giuseppe Betori, per oltre un decennio braccio destro di Camillo Ruini alla guida della Conferenza episcopale italiana, da quattro mesi è arcivescovo di Firenze. Questa è la prima intervista dal suo insediamento. Nello studio che guarda Santa Maria del Fiore ha il ritratto di Elia Dalla Costa, «arcivescovo dal ’31 al ’61, l’uomo che chiuse le porte e le finestre dell’arcivescovado a Hitler. Si sostenevano a vicenda, lui e Giorgio La Pira: avevano lo stesso confessore, don Bensi. Era la Firenze di Giulio Facibeni, cappellano della Grande Guerra, fondatore dell’Opera che si occupa degli orfani. Di tutti e tre è in corso la causa di beatificazione. Per me, Dalla Costa è la fede, La Pira la speranza, Facibeni la carità».
Quali sono i suoi sentimenti, in queste ore in cui la vicenda di Eluana Englaro si avvicina all’epilogo?
«La vicenda di Eluana Englaro sta giungendo alla tragica conclusione che molti hanno voluto. Ancora una volta la voce della Chiesa, così spesso accusata di volersi imporre a tutti i costi, si è rivelata caratterizzata da quella fragilità che è propria di chi non può fare appello che alla coscienza. E se la coscienza per crescere ha bisogno di un processo necessariamente lento, è ancora più difficile che maturi, come in questo caso, sotto l’influsso delle grida e dei proclami ideologici, soprattutto quando anche le istituzioni invece di mettersi in ascolto dei diritti naturali si erigono a produttori di pseudo nuovi diritti. Se questa è la porta aperta per un’autodeterminazione che vuole giungere a legalizzare l’eutanasia, la nostra società si avvia verso una tragica involuzione quanto a rispetto dell’intangibilità della persona e della sacralità della vita. Sono riferimenti che nel passato hanno permesso all’umanità traguardi decisivi: l’abolizione della schiavitù, la condanna delle diseguaglianze razziali, il rispetto per i disabili. Abbandonare questa strada non sappiamo dove può condurci. Anzi, lo sappiamo, ma ci è più comodo illuderci che tutto ciò sia innocuo, forse anche vantaggioso per l’umanità. Alla Chiesa resta solo la preghiera, per tutti, sperando fino all’ultimo nella conversione dei cuori e nella fiducia che anche da questo tragico evento possa nascere una coscienza più avvertita dei pericoli che incombono su di noi, divenuti così potenti nelle tecnologie e così fragili di fronte alla sofferenza».
Considera giusto il ricorso a un decreto? E come valuta il no di Napolitano?
«C’è un realismo cristiano, per il quale il valore di una persona è superiore anche agli interessi di tenuta di un sistema politico e alle esigenze delle stesse forme giuridiche. Da questo punto di vista, quest’ultimo passaggio è in linea con le molteplici forzature che si sono registrate sul piano giuridico prescindendo dal bene della persona. Se il diritto non è a servizio delle persone diventa un problema. Noi cattolici amiamo talmente la realtà che non accettiamo di chiamare morta una persona che ancora vive. E mi lasci dire che siamo noi i veri uomini della ragione, coloro che non cadono nella contraddizione di dichiarare una persona priva di ogni dimensione umana per poi sedarla per evitarle un dolore che non dovrebbe sentire. Tutto questo ci potrà procurare anche qualche ingiuria, ad esempio di meschino integralismo…».
Queste sono le parole di D’Alema.
«Se la fedeltà alla verità ci costa qualche insulto, questo per noi è nulla purché una vita umana venga salvata».
C’è una sentenza della magistratura, rispetto a cui la Chiesa è accusata di ingerenza.
«La sentenza consente, non impone nulla. Secondo illustri costituzionalisti, non solo secondo me, la sentenza va ben oltre le possibilità che la Costituzione e l’attuale legislazione prevedono. La Chiesa ha la massima comprensione per le persone e per questo agisce nel suo modo tipico: pregando; a Firenze abbiamo organizzato una veglia di preghiera, c’erano 500 persone. Ma la Chiesa ha anche il dovere di dire la verità, non il falso. Qui è in gioco la verità sull’uomo e sulla vita umana. La vita ci è data; non è disponibile; non possiamo pensare di determinare la vita stessa. È segno della crisi del nostro tempo mascherare da diritti ciò che è solo desiderio».
Lei disse che la legge sul testamento biologico non era necessaria.
«Ero convinto che la legislazione vigente tutelasse la vita e non ci fosse bisogno di nuove norme. All’evidenza non è così. Si faccia allora una legge chiaramente a favore della vita, consentendo alle persone di esprimersi con modalità certe circa il proprio passaggio finale. Ma il caso di Eluana viene accostato al testamento biologico in modo strumentale. In realtà non ci sono indicazioni univoche sulla sua volontà. La sentenza ne ha preso in considerazione alcune e non altre. E ne ha dedotto la validità in base allo stile di vita. Una forzatura».
Che cos’altro avrebbe potuto fare il padre? Lasciarla alle suore che si erano offerte di seguirla?
«Mi sembra che in tutta questa vicenda se c’è qualcuno che se ne esce con intatto prestigio e accresciuta credibilità sono proprio le suore, che da anni servono questa donna come una figlia e tale la considerano. Non hanno scritto libri né si son messe a frequentare le televisioni per dire le loro ragioni, traducendo un fatto umano in un volano di azione politica; ma nessuno può negare che, se la ragione sta dalla parte dell’amore, il loro amore è stato il più alto e il più concreto fra tutti. Non chiedevano altro che di poter continuare nei gesti dell’amore. Se una donna in questi giorni viene privata della sua vita in forza di un’ipotetica ricostruzione di una sua presunta volontà, altre donne, queste suore, vengono anche loro offese, private di una relazione che non smetterà però di riempire la loro vita. Come pure il ricordo di questa donna resterà nel cuore di quanti amano la vita come un dono da custodire e non come un possesso di cui disporre».
Veniamo a Firenze, che pare in difficoltà. Inchieste giudiziarie, un sindaco che si incatena, primarie a sinistra affollate e contestate.
«Firenze non è fuori dall’Italia. Anche questa città subisce l’impoverimento della politica che segna il momento del Paese. Un impoverimento ideale, che Firenze condisce con un suo carattere tipico, l’antagonismo. Quelli che potrebbero essere strumenti di partecipazione, in un clima di impoverimento ideale diventano l’occasione per far emergere tutte le contrapposizioni possibili. Va detto che, in una città cui non bastavano Guelfi e Ghibellini e si è inventata pure i Bianchi e i Neri, cinque candidature possono rappresentare un segno di moderazione…».
Quando il Pd tenne le primarie nazionali nel 2007, lei espresse dispiacere per la partecipazione di preti e suore. La pensa ancora così?
«Sì. La Chiesa non partecipa alla vita interna dei partiti. La Chiesa non è di parte; è di tutti. Dio non è di qualcuno: Dio è con noi, Dio è contro di noi… sono slogan che hanno avuto esiti nefasti, per quanto regga il paragone con le piccole vicende politiche della nostra Repubblica attuale. Lo strumento con cui la Chiesa sta con tutti è la parrocchia. Al mio clero rivolgo un ringraziamento perché, per quanto diminuito nel numero e cresciuto nell’età, mantiene le posizioni tra la gente. La Chiesa italiana non è una Chiesa d'”élite”. È una Chiesa di popolo».
Alla Chiesa italiana si rimprovera di schierarsi piuttosto dall’altra parte, con il centrodestra.
«Sfido chiunque a trovare una dichiarazione della Cei in tal senso. La Chiesa fa scelte di cultura e di valori; le conseguenze politiche sono secondarie. Non abbiamo mai scelto una parte; noi ci siamo sempre espressi sui problemi, in particolare su quelli antropologici. La grande intuizione del cardinale Ruini è stata proprio superare l’appiattimento del mondo cattolico sulla politica. Da troppo tempo la cultura cattolica, direi dagli anni di Rosmini, era subalterna e talvolta autoemarginata rispetto ai grandi processi culturali del Paese».
Eppure lei ha denunciato una «cultura egemone» ostile alla Chiesa.
«Distinguerei tra una cultura pubblica, che ha l’egemonia sulle strutture di comunicazione ed è ostile alla presenza in campo della Chiesa, e una cultura diffusa. Il referendum sulla legge 40 ha mostrato come questa cultura diffusa, appannaggio non solo dei credenti, possa affermarsi sulla cultura di élite, convinta di orientare le grandi scelte con certe articolesse della domenica».
Come giudica la vicenda dei lefebvriani? Un vescovo può negare la Shoah?
«Si tratta della remissione di una scomunica, che era stata comminata non a uno solo ma a quattro vescovi consacrati fuori dalle norme canoniche. Oggetto della remissione è una condizione giuridica, non il pensiero lefebvriano. Un gesto di misericordia da parte del Papa; ed è paradossale che venga criticato da chi in genere trova la Chiesa poco misericordiosa. Un gesto che non segna la conclusione ma l’inizio di un cammino, ancora tutto da compiere. Perché il pieno riconoscimento del cattolicesimo implica accettare tutta la fede, incluso quel pezzo della tradizione che è il Concilio vaticano II».
Ma il negazionista Williamson è vescovo oppure no?
«I quattro vescovi sono stati ordinati validamente seppure illecitamente, e la Chiesa non può annullare gli effetti di un sacramento, che è opera di Dio. Ma la Santa Sede ha chiarito che tutti e quattro i vescovi non possono esercitare il loro ministero, che resta inibito fino a quando non sarà compiuto per intero il loro cammino di riconciliazione con la Chiesa, accettando il magistero del Concilio vaticano II e dei recenti pontefici. Per il vescovo Williamson si aggiunge la richiesta di rigettare esplicitamente le posizioni negazioniste sulla Shoah. Il fatto che Williamson abbia negato l’Olocausto è gravissimo, inqualificabile, vergognoso. Dal punto di vista della verità storica, è inaccettabile e inammissibile che non dico un vescovo, ma un cristiano neghi cose realmente accadute. Ciò tradisce un giudizio sugli ebrei segnato dal sentimento antisemita, che la Chiesa mai ha condiviso, e dal sentimento antigiudaico, che la Chiesa ha superato con la dichiarazione del Vaticano II Nostra Aetate. Non è possibile essere cattolici e antigiudaici».
Come reagirebbe di fronte a una preghiera islamica davanti a Santa Maria del Fiore?
«Non mi piacerebbe, e la considererei una provocazione. Ogni religione ha diritto a spazi per l’esercizio del culto; ma questo non implica il diritto a invadere spazi non propri, né la pretesa di costituire presenze al di fuori di una maturazione culturale. Prima di innalzare le proprie chiese i cristiani hanno atteso secoli, perché si formasse l’amalgama culturale con la società in cui vivevano».
Nessuna fretta per costruire nuove moschee?
«Occorre tutto il tempo necessario perché l’Islam entri in profondità nell’habitat culturale italiano. Vediamo come e in che modo questa comunità si colloca nella società. E troviamo subito insieme forme perché possa praticare il proprio culto».

Aldo Cazzullo

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